SOPRA E SOTTO IL PONTE

Un romanzo di Alberto Bassetti

 

1.   

Sì, Deborah è carina, nonostante l’acca. E’ anche normale che lo sia: ha quasi sedici anni, chi non lo è a sedici anni? Beh, qualcuno c’è: basterebbe guardare i miei compagni di scuola; anche se io, di anni, ne ho quasi diciotto: terzo liceo classico, ciao, mi chiamo Alessandro, Alex se vi piace abbreviare o sentirvi very english. Allora diciamo che lei è Deb, e che è la sua vocina che mi piace di più: ancora infantile, un po’ nasale e con quella leggera inflessione dialettale… siamo a Roma, d’altra parte, e questo qui sotto è il GRA, Gran Raccordo Anulare, più che altro un vero casino di auto che passano e sorpassano e poi si fermano tutte assieme appena c’è il più piccolo incidente. Certo, un poeta potrebbe trovarci qualcosa di più, anche qui, in questo schifo, e io ci provo, anche se poeta non lo sono. Però ogni tanto ci provo. Eccomi stanotte, in attesa dell’alba: potrei osservare le luci degli aerei che si abbassano verso Ciampino, oppure ammirare il volo dei gabbiani che si allontanano dal fiume alla ricerca di qualcosa che forse non sanno, Un po’ come me, e sul serio mi piacerebbe essere un uccello, specie stasera, per andarmene lontano lontano, e guardare il mondo da lassù perché da lì sembra tutto più bello: le auto (non ne senti la puzza né il rumore) sono scie luminose coi loro fari gialli e rossi; i corsi d’acqua (non vedi la melma e i rifiuti galleggianti) risplendono d’argento; i prati sembrano tutti dei soffici, curati, perfetti campi di calcio  (ma senza calciatori a calpestarlo né tifosi ululanti tutt’intorno): la città intera sembra un grande presepe (ma non vedi… beh, qui la descrizione sarebbe troppo lunga!).

 

“Ce n’è che diventan sergenti

o mercanti di quadri

c’è chi vende stuzzicadenti 

o grandi automobiili

c’è chi rimane sempre

 sepolto come una patata 

ma io da grande

io farò il pirata. “

 

Confermo: è veramente deliziosa quando si sforza così di capirmi, non le capita spesso in verità: con l’accendino illumina la pagina e quello che mi piace davvero è che ha letto la mia traduzione a matita e non i versi stampati. Ora chiude il libro e ne scruta la copertina: “Canzoni di Boris Vian”. Si starà chiedendo chi cazzo sia. Io mi sto domandando che effetto le abbia fatto, mentre dallo zaino appoggiato al parapetto del cavalcavia tiro fuori un sampietrino.

 

“Ti piace?”

Mi guarda un attimo, anche se è troppo buio, e risponde:

“Cosa, la poesia o la pietra?”

 

Bella domanda! Ma non le hanno insegnato a non rispondere a una domanda con un’altra domanda?! Che, poi, molto più di lei, io, mi chiedo come davvero sia finito qui, a quest’ora, tutta la notte, ad aspettarlo, perché so che passerà qui sotto, e…

 

2.

Nove mesi prima di quell’estate, l’autunno è appena cominciato e la luce del tramonto che rende così netto e preciso il contorno del Cupolone arriva ad illuminare le vetrine del negozio di Andrea, ammorbidendo il tutto con il suo colore ambrato. Non per questo lo sguardo di Padre Pio appare meno severo; Gesù Cristo mostra sempre il suo cuore denudato e sanguinante, oppure una fiamma che scaturisce direttamente dalla sua mano protesa, quando non appare crocefisso a sopportare con abnegazione il proprio martirio; accanto, diverse immagini della Madonna con mantello azzurro allargano le mani in atteggiamento dolce ma fermo. In mezzo a tanto variegato stordimento di legno, resina e colore (ogni tanto anche marmo, scolpito a mano) il papà di Alessandro racconta ad un fornitore una sua (reale o presunta ha poca importanza) impresa di qualche giorno fa. L’aria è un po’ arrogante, e sinceramente lui è il tipo che ama colorire i propri racconti, a suo parere: edificanti. Proprio come i suoi artigiani colorano di smalti e sfoglie d’oro zecchino le statue del suo antico ed onorato negozio.

 

“’No’, mi fa: ‘quello che non ho capito è l’uccello! Che cosa mi rappresenterebbe quell’uccello lì?’ . E mi indica quella bella scultura in argento dietro il bancone. Ora, tu lo sai, io sono buono e tollerante, ma nessuno deve venire qui, nel mio negozio, a prendermi per il culo. Invece lui continua: ’Questo tuo Dio truce e cattivo che sommerge d’acqua il mondo intero; poi arriva Gesù, tutta bontà e sacrificio; e nel mezzo quest’uccello: ma chi è, cosa rappresenta?’ Sai che non c’ho visto più? Se uno non crede, sono affari suoi, con la sua coscienza: ci penserà Lui…”

 

La mano destra di Andrea sembra indicare il soffitto del negozio e in effetti, decorato com’è di putti e angeli, rende bene l’idea che vuole esprimere: Lui, il Giudice Supremo! Ma lo scetticismo prende per un attimo il sopravvento, e il suo indice sembra piuttosto comporre un grosso punto interrogativo nell’aria.

“…se davvero ci sarà, quel giorno. Ma fino ad allora, nessuno provi a prendermi per il culo!”

 

Ogni dubbio è svanito, il suo sguardo si fa tagliente.

”Ho tirato fuori le palle, gli ho mollato un bel ceffone: qui, proprio qui!” Si tocca il viso, quasi con piacere.

 

3.

Roberta si accende una sigaretta, no, guardando meglio e soprattutto avvertendone l’odore: è un sigaretto, di quelli stretti e fini, che lei consuma in quantità notevoli, accompagnandolo spesso con qualche sorso (in effetti quasi mai esagera) di schotch whisky. Della prima abitudine non si vergogna, anche se è quella che, in realtà, può nuocere o disturbare chi le è vicino; la seconda, invece, tende a nasconderla: a volte, come in questo caso in cui è presente la figlia Deborah, tiene il bicchiere un  po’ nascosto, perché non è facile avere un po’ d’intimità in una casa così piccola, dove una donna ‘sola’ vive coi due figli. Il salone, poi, è tutt’uno con la cucina, se non per una griglia di separazione che riesce comunque gradevole, resa viva da una felce che vi si arrampica; e in effetti tutta la casa è accogliente, colle sue pareti calde di un colore tra salmone e ocra, i divani ricoperti di un tessuto ruggine e rosso, e un’aria di fermento non fosse altro che per il mare di maglie e vestiti sparsi ovunque tra cestini di brillantini, guarnizioni, pericolosissimi aghi che talvolta poggia da qualche parte con fastidiose conseguenze per chi siede… d’altronde, è il suo lavoro rifornire boutiques e negozi di sue creazioni artigianali: non che abbia un nome, anzi è sempre più difficile piazzare le sue cose in un mondo che guarda più alla targhetta e alla firma che alla creatività: perché, bisogna riconoscerlo, lei ha buon gusto, anche se vive in un quartiere periferico in un agglomerato di palazzi che sembrano aver smarrito (perché in realtà non l’hanno mai avuto) ogni senso di decoro. Il GRA è vicino ma i motori delle auto non arrivano coi loro rumori, e questo è già qualcosa. Sempre più le è indispensabile il suo ‘secondo lavoro’, che si pratica anch’esso tra le quattro mura, ma non è quello della casalinga che, semmai, è il suo terzo lavoro.

 

Sta adornando una maglia con brillantini su un ricamo che ha già terminato. Nel frattempo, approfitta della presenza di Deborah che però, stesa sul divano a guardare un cartone animato, non sembra così coinvolta nella conversazione.

 

“Ho incontrato Teresa, la mamma di Selvaggia: dice che non vi vedete quasi più con sua figlia, perché? Vorrei sapere dove te ne vai in giro tutto il giorno! Qualche volta ti vengo appresso, Deborah, visto che non mi racconti mai niente… vabbeh che quando ti vedo a casa a ciondolare… apri un libro, no? Almeno quelli di scuola, o vuoi fare come l’anno scorso? Ce l’hai fatta per un  pelo! E poi, sempre con quella tuta: ma perché non cominci a vestire un po’ più femminile? Se continui a conciarti così, è vero che non mi devo stare a preoccupare dei ragazzi… ce l’hai il ragazzo? Non racconti mai niente, tra te e Valerio… guarda questo abitino qui quant’è grazioso, ti starebbe bene, provalo, almeno!  Il diciotto c’è la comunione di tuo cugino, lì devi vestirti come dico io… ma vuoi rispondere, una buona volta!?”

 

Lo sbadiglio annoiato della ragazza mentre addenta una mela senza staccare gli occhi dal video, non può certo considerarsi una risposta!

 

4.

Anche in un’altra casa, seppure così lontana come quartiere e talmente più bella, un altro genitore, Andrea, sembra monologare col proprio figlio che, invece della mela, mangia uno yogurt appena preso dal frigo: velocemente, la voglia di scappare via appena consumato l’ultimo cucchiaino.

 

“Alessandro, che fai? Ma devi proprio uscire anche stasera? No, niente in contrario, però visto che non c’è tua madre potremmo starcene un po’ tra uomini, parlare… “

 

Si versa anche lui del whisky (lui, però, beve quello invecchiato dodici anni, e una differenza dovrà pure esserci!), senza bisogno di nascondere il gesto: una persona a posto, lui, certamente nessun eccesso, solo un goccetto ogni tanto, dopo cena.

 

“Ogni tanto mi piacerebbe sapere dove vai… non la riuscite proprio a capire voi giovani,  oggi, la fortuna che avete! Non spazientirti, eh: niente predica! La vera fortuna è che il genitore, oggi, vuole parlare coi figli, dialogare. Lo diceva proprio ieri una trasmissione sul primo”.

Prende il telecomando ed accende il televisore, un bel plasma cinquantadue pollici attaccato sopra il camino.

“Avresti dovuto vederla, con me. Lo sai che se avessi cercato di parlare io con mio padre, all’età tua, trent’anni fa… “

Lo sguardo si posa istintivamente sulla foto in bianco e nero di un bell’uomo in divisa, capello impomatato all’indietro, tipico degli anni ’40.

“Povero papà, grand’uomo… ma allora era diverso, nessuno leggeva trattati tipo: ‘Come educare i figli senza castrarli’, ‘Problemi ed ansie dellla pubertà’, ‘La masturbazione ed i suoi effetti collaterali’…”

Il tono lievemente sarcastico con cui sottolinea la sua creatività nell’inventare quei titoli richiederebbe almeno un cenno d’apprezzamento dall’auditorio, ma lui, ai silenzi del figlio è abituato. Non per questo demorde: usa anzi un tono ancor più complice, bonario, cameratesco.

“A proposito, tu come fai? Ragazze non ce ne presenti mai! Perché guarda, anche lì, mica è vero quello che dicevano alla mia generazione: farsi qualche sega, non fa male, anzi…”

E’ preso dall’argomento, e solo per abitudine col telecomando prende a fare il giro dei canali tv.

“Ecco, questo è un bell’argomento! Capisci com’è importante poter parlare di certe cose, infrangere certi tabù, col proprio padre? Fondamentale! E comunque oggi, cosa credi, certe volte è meglio starsene davanti al televisore con qualche bella cassetta… non parlo di quei vecchi film che guardi sempre tu… cassette, o dvd se preferisci, un po’ più calde… sai, tra malattie e donne che non cercano altro che far casino e metterti in mezzo…”

 

Alessandro non ama lasciare la cucina sporca: getta tutto nel secchio, lava il bicchiere che ha usato, il suo praticamente da quando è nato, un bel Bug’s Bunny della collezione ‘Nutella’; indossa il maglione leggero da mezza stagione, che è comunque un cachemere perché, se è vero che lui non fa caso a certe cose, è innegabile che quando la madre ti compera un qualcosa di così morbido e piacevole sarebbe sciocco, oltre che ingrato, rifiutarlo; e poi il suo cappellino nero con visiera, originale, un po’ Corto Maltese un po’ Marlon Brando, però ‘rivisitato’, indossato al contrario… poi, un altro privilegio innegabile, comunque la si pensi, è avere il doppio ingresso alla cucina: quello sulla sala da pranzo, tutt’uno col salone, e quella verso la zona letto; così, senza troppa fatica, si può facilmente sgattaiolare verso il portone evitando saluti e spiegazioni. Certo, non sarà il massimo dell’educazione, ma da una stanza all’altra si può sempre pensare di non aver sentito… anche se la voce del padre gli giunge ancora nitida nelle orecchie:

 

“Dico per te, eh, io che c’entro? Tua madre è ancora una bellissima donna! Però tu, sempre in giro, devi fare attenzione. Voi ragazzi tendete troppo a sottovalutare i pericoli, ed è normale, perfino giusto a quell’età! Ma tu ce l’hai la ragazza fissa? Benché, sai, prima di star tranquilli, al riparo da certe malattie, dovresti sapere cosa una ha fatto i dieci anni precedenti, oppure portarla a farsi una bella analisi del sangue: te presente, naturalmente!”

Inclina un po’ il capo come cercando il suono di una risposta che non arriva.

“Oh, sempre segretissimo tu. Ti capisco: ti piace sfarfallare! Ma non farti incastrare: tira fuori le palle, e usa il profilattico!”

Quest’ultima parola gli resta un po’ in gola non per il fastidioso pensiero di quella gomma così noiosa e malodorante, ma per la sorpresa, la delusione di essersi affacciato sulla soglia della cucina per terminare l’argomento nel modo più brillante e solidale, scoprendo invece che nessuno lo ascolta: la cucina è vuota, certo prima o poi deve chiarirsi con Ale una volta per tutte! Mah, tutti dicono che è l’età, il periodo, l’emancipazione dal padre, dalla famiglia; a scuola, comunque, va bene, non fuma, non beve… per ora non resta che riprendere in mano il telecomando e augurarsi che, visto che non c’è neanche sua moglie, ci sia almeno un bel programma: macché, guarda là, i soliti dibattiti, i films sono gia iniziati tutti, ed ecco queste solite sgallettate del varietà che sgambettano fingendo di essere ballerine! Beh, se non c’è altro, meglio di niente…

 

5.

Le stesse ballerine che danzano nel televisore di Roberta. Per fortuna, almeno in questo c’è democrazia: quello che passa la televisione è uguale per tutti… certo, c’è chi lo riceve su un plasma cinquantadue pollici seduto su un sofà di design e chi sul vecchio appareccio con tubo catodico e la metà dei pollici; e poi, con l’avvento dei canali a pagamento, la parità non esiste proprio più. Infatti, mentre Andrea è già passato oltre, godendosi un bel film in anteprima tv; Roberta commenta con  Deborah che le siede accanto ancora quelle immagini.

 

“Perché almeno non ci provi? Guarda là: non credere che quelle quattro cretine abbiano davvero qualcosa più di te! La figlia di Ida ha fatto un’audizione: dieci minuti, rideva sempre… ogni domanda che le facevano, lei rideva. L’hanno presa per il programma del giovedì sera, una delle tante, ma intanto sta lì, chissà cosa può venir fuori! Intanto guadagna qualcosa, comincia già ad avere i versamenti pensionistici, che io son l’unica al mondo che resterà senza pensione, e poi cominciano a vederla… e ha pure la giustificazione per la scuola il giorno dopo!“

 

Si accende un sigaretto, al whisky rinuncia controvoglia, Deborah è proprio lì accanto; certo non è facile nascondersi, o comunque avere un attimo tutto per sé in quel buco di casa, almeno questo contatto fosse stimolante, riuscisse almeno a strappare Deb da quella irritante apatia da perenne insoddisfatta, e Valerio da quell’atteggiamento arrogante, sempre sprezzante, che usa con lei e chissà con quanti altri, nel mondo fuori…

 

“Prova anche tu, no? Non costa nulla provare!”

 

L’interesse di Deborah è così acceso che si porta una mano davanti alla bocca  mentre pronuncia a mezza bocca uno stentato:

“Buonanotte.”

 

Qui la voce di Roberta sale un po’ di tono, diviene quasi stridula e acuta:

“Invece di stare a perdere tempo, tutto il giorno: tira fuori le palle!”.

Chissà se è lo stimolo giusto per una ragazza prima di andare a letto: si sognerà fornita di testicoli mentre danza in prima fila allo show del sabato sera?

 

6.

“Le palle, ci vogliono le palle: bisogna saper tirare fuori le palle!”

Altro giorno, altra casa, parole simili, già sentite e già dette. La voce è quella di Andrea, le orecchie quelle del figlio.

 

7.

Alessandro è appoggiato alla rete del cavalcavia: guarda le auto che passano veloci nell’ora in cui la gran parte delle persone ritorna a casa dopo una giornata di lavoro, spesso dura e stressante, ed è davvero paradossale che, per poterla eseguire, ci si debba sottoporre ad una prova così faticosa come sopportare quel traffico serrato pieno di clacson, lampeggianti, code… ma non è questo, per ora, il problema di Alex, che va a scuola a piedi e non usa motorino: gli piace perdersi sui mezzi pubblici, li usa anche per giungere su questo strano luogo di appuntamento che ha scelto qualche tempo fa, così diverso dal ritrovarsi al bar, in una piazza, un giardino… gli piace isolarsi qui, alle orecchie gli auricolari di un minuscolo lettore di musica, perché ogni tanto una concessione al progresso bisogna farla, ma per compensazione ha nella tasca un libro con una matita nera, old style a far da segnalibro. Certo, non è il posto più sicuro per starsene tranquilli a pensare, o chissà cos’altro cercare… infatti, dietro di lui si allunga all’obliqua luce del tramonto l’ombra di un altro giovane che lo avvicina circospetto: biondo, occhi azzurri, non particolarmente bello ma certo colpisce con la sua aria luminosa e strafottente. Ha due orecchini al lobo sinistro e veste pantaloni e felpa troppo larghi per mettere in mostra il fisico prorompente e proporzionato ma non per inficiare  l’aspetto poderoso del suo metro e ottantacinque. Non è dunque rassicurante la sua immagine quando, giunto di soppiatto alle spalle di Alessandro, gli sferra un calcio nel sedere. L’altro si gira, e già in quest’atto si pone in atteggiamento difensivo ma pronto all’attacco, una posa vista tante volte soprattutto al cinema: partono colpi veloci che non raggiugono mai l’obiettivo, la schermaglia che ne nasce sembra una blanda parodia di uno dei tanti films cinesi di arti marziali… calci rotanti parati con l’avamraccio dall’avversario che ne sposta la gamba, colpi diretti al volto allargati dal gomito della possibile vittima; il tutto accompagnato da piccole urla che soprattutto servono a scandire una respirazione precisa e veloce nel recupero dei fiati. Ora scivolano a terra e si avvinghiano rotolando sul marciapiede, certo uno spettacolo inquietante per le auto che dovessero notarli, ma in realtà non frega niente a nessuno, tutti troppo indaffarti a raggiungere la propria casa, o forse un compagno o una compagna, chissà: quasi certamente un televisore. Quello non manca, quello c’è sempre, per i momenti più intimi e quelli di più triste solitudine…

 

Intanto Valerio sembra aver preso il sopravvento su Alex, anche perché, se l’altezza è più o meno la stessa, non lo è il peso. Ale ha una muscolatora nervosa e scattante, ma certo è difficile competere con quell’avversario che ora sta mettendolo spalle a terra: in un vero combattimento lui potrebbe sfruttare le armi più feroci: colpi di testa, ginocchiate ai testicoli; in questo caso no, anche perché Valerio lo molla limitandosi a portare alle orecchie le cuffie del lettore cd caduto in terra ma ancora acceso e funzionante.

 

“Oh, ma che roba è? E che so’, violini: ‘Fantasia’ di Walt Disney?”.

Ale riprende le cuffie con una smorfia, le rimette alle orecchie ma Valerio insiste, urlando più forte del necessario,  certo più per sfottere che per necessità:

“Che sei incazzato? Ti rode sempre, signorino… attento, qui devi stare in campana: se ero uno del pratone, sai che ti facevo? Perché vieni sempre qua, e non resti nel tuo bel quartierino, coi palazzi tutti puliti e le macchine belle in fila? Lo so perché: ti piace fare lo spostato, leggi quei quattro libri e vuoi fare come loro.. facile, per te… guarda qua, che bel giubbottino, e i jeans, sembrano rovinati ma sono appena usciti dal negozio, vero?”

Che fastidio quando provochi qualcuno e quello neanche ti risponde, non dico reagire fisicamente, ma almeno un’imprecazione, un’alzata di voce, uno:

“Smettila!”.

Invece: niente.

E’ evidente, per Valerio, che è meglio tentare un’altra carta con questo tipo qua:

“Tanto lo so che se anche vieni qui quasi tutti i giorni, di mia sorella non ti frega un cazzo!!!”.

Tombola! La provocazione è andata a segno, lo dimostra il fatto che Ale si gira infuriato verso di lui e lo afferra con una velocissima mano al collo, guardandolo da vero duro; il che non basta per togliere all’altro un ghigno sornione pieno di molteplice soddisfazione.

“Va bene, va bene… non parli mai, poi appena uno ti nomina Deborah…”

Ale lascia la presa e si risolleva, tornando al parapetto, a guardare oltre la rete la strada sottostante, Allora è Valerio che torna all’attacco, puntandogli da dietro un bel dito sotto il mento.

“E poi, io ho già diciott’anni, pischello, e mi compro la macchina, mentre tu resti a guardarle e non ti faccio salire neanche una volta”.

Gli passa il dito sulla gola ma senza violenza, solo per sfotterlo.

“Ciao, guardamacchine. Ero solo venuto a dirti che oggi Deborah non può venire”.

Si allontana un po’ correndo, com’è nel suo stile, un po’ da atleta. Ale invece resta immobile, gli occhi pieni di fari e le orecchie di note.

 

8.

Che strazio tutta questa pioggia in ottobre. E poi, proprio stasera! Tutti di corsa verso l’auto, molti senza ombrello perché magari non se l’aspettavano: escono dal teatro riparandosi sotto un programma di sala o qualche giornale omaggio trovato all’interno. Andrea no, è stato previdente e cammina tranquillo sotto l’ombrello, dando il braccio a sua moglie. La cosa per cui è irritato non è la pioggia.

 

“Stavolta basta, sul serio, lo dico sempre, invece tu insisti… non era una cazzata? La storia di questo giornalista, e la televisione, che poi è anche scorretto, in teatro, parlar male della concorrenza… lo strapotere dell’informazione…” Marta, al suo braccio, ascolta. “Io dico che dopo quel bellissimo film di Orson Welles, beh, grazie, però poi basta. Invece oggi è di moda avercela con la televisione: ti ricordi anche l’altra sera, dai Calogero? Se non ne parli male, non sei ‘in’… poi, Sanremo, ti fa venticinque milioni di spettatori!”

 

Hanno raggiunto la loro Mercedes. Andrea fa salire la moglie, le chiude lo sportello, poi prende posto al volante, e ripensa all’analogo discorso tenuto col figlio, sempre in quell’auto, il giorno prima. Dall’autoradio si diffondeva una musica

 

“Credimi, Alessandro: tutti falsi problemi, menate che portano avanti per creare altri dibattiti, riempire pagine di giornali e dibattiti televisivi. Qual è il problema, troppa tv? E allora, non c’è in ogni televisore un bel pulsante di accensione? Attenzione: come serve per accenderlo, serve anche per spegnerlo… sennò, che ce l’hanno messo a fare? Basta non spingerlo, non toccarlo nemmeno, e quel coso resta lì, fermo, immobile, zitto, buono buono. Ecco!”

 

Con rapido gesto sfiora un tasto dell’autoradio che, docilmente, tace.

 

Ora invece mette in moto l’auto e conclude il discorso con la moglie mentre attiva il tergicristalli.

“Però, Alessandro esagera: se continua a non guardarla, visto che è il solo, poi si sente escluso; con gli altri, poi, non sa di cosa parlare. A scuola non frequenta nessuno, non ci presenta mai un amico. Allo stadio non va, sta lì, si prende le sue vecchie cassette, legge un libro, la sera non si sa dove va… comunque, concludendo l’argomento televisione: ogni cosa è buona o cattiva secondo l’uso che se ne fa”.

 

E ancora una volta gli torna in mente lo stesso discorso fatto al figlio.

“Prendi me: passo ore a rincoglionirmi davanti a quel coso? Macché! Torno dal negozio stanco morto, eppure metto la tuta e, a cinquant’anni, mi faccio ancora i miei bei tre quarti d’ora di corsa nel parco. La tele l’accendo quando dico io, quando decido che va accesa, che c’è qualcosa di elevato, valido, formativo”.

 

9.

Adagiato con le spalle sulla rete del cavalcavia, Alessandro rammenta la conclusione di quel discorso risentendo nelle orecchie la voce del padre:

“Non sei d’accordo? Sì, non rispondere che ti cade la lingua”.

Pensa al padre per associazione al libro che sta leggendo, almeno fino a quando non sente il rumore di un motorino un po’ scarburato, scoppiettante; alza gli occhi su quella carrozzeria vecchiotta ma resa allegra da adesivi e scritte o disegni di pennarelli colorati, e soprattutto dalla piacevole presenza del musetto di Deborah che fuoriesce da sotto il casco. Il parabrezza, anch’esso sui bordi ricoperto da scritte fitte di nomi e cuori e fiorellini, finisce per sfiorarlo mentre il motore si spegne lasciando nuovamente lo spazio sonoro agli altri mezzi che passano sopra e sotto quell’insieme di strade.

“Ciao Ale… che fai, non ti rompi le palle? Sempre con un libro in mano!”

Strano, dovrebbe essere rassicurante qualcuno che ti aspetta e, anziché aggradirti per il tuo ritardo, legge tranquillamente.

Scesa dal motorino, si china per guardare la copertina del libro.

“’Le grandi religioni’… ho capito, te l’ha regalato tuo padre: proprio fissato! Certo, uno che commercia in articoli religiosi… ti ha pure rifatto il discorso che se uno non credeo no non importa, noi dobbiamo tutti sentirci uniti nella religione, sennò vengono i musulmani, i rasta, i buddisti e ci spaccano il culo; te l’ha detto, eh?”

Non trattiene il riso, un po’ maligno seppure lieve e dolcemente infantile.

“Mi fai così ridere quando mi racconti di tuo padre; vabbeh che i padri sono tutti uguali… credo… beh, tu almeno ce l’hai un padre”.

E’ un rabbuiarsi breve, l’argomento sfiorato fa male ma allora è meglio superarlo con un’altra battuta, e magari con un gesto di complicità con l’altro; infatti riprende:

“Lui, però, c’ha proprio la fissa”,

poi guarda lui e all’unisono esclamano, come a un segnale convenuto:

“Che palle!”

Ridono insieme e si abbracciano. Lui sempre con il libro in mano, che continua ad osservare anche mentre si scambiano qualche bacio. Infatti ora lo apre, cercando la pagina dove ci sono più sottolineature della sua inseparabile matita.

“Due frasi mi hanno colpito, qui dentro. Una di Gesù: ‘Non sono venuto a portare la pace ma la spada; infatti, sono venuto a separare suo padre da suo figlio’. L’altra di Buddha: ‘Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo’.”

Fissa negli occhi Deb pur dubitando che stia comprendendo cos’ha lui per la testa… qualcosa di talmente confuso, d’altronde.

“La prima volta che mi regala un libro”.

 

10.

Irene è una vecchia signora distinta e compassata, ma anche attenta alle cose del mondo, forse troppo per via di quell’aria un po’ saccente che i suoi occhialini sempre sulla punta del naso tendono a sottolineare. Certo che anche lei, evocata dal ricordo di Andrea, diviene più vivace, forse persino più simpatica:

 

“Zia Irene, sì, la tua cara zietta… faccia di gallina, con quelle mille rughe intorno agli occhi: tutta rughe e pochi denti!”.

Sorride della sua stessa battuta.

“Legge troppo, rompipalle fin da ragazza. Se ne esce con questo suo ‘consiglio’. Che, poi, sono affari suoi?”

Andrea osserva Alessandro che non stacca gli occhi dal libro che sta leggendo, sdraiato sul letto.

“Oh, una volta che rispondessi, una volta che potessi sentire la tua voce!”

Ancora silenzio, ma per lo meno ora Alessandro ha alzato lo sguardo verso di lui.

“Ma allora davvero ha ragione lei: tu davvero ‘fatichi a comunicare’, hai problemi, ti maceri?”

Si guardano ancora qualche istante:

“Eh, sì, fatichi a comunicare!”

Il suo sguardo ne approfitta per scorrere lungo la scrivania, dove fogli, quaderni e libri si alternano a pupazzi di plastica e piccoli pelouches; poi lungo le pareti dove poster di cantanti o attori lasciano in una piccola parete spazio a cartoline in bianco e nero incorniciate di grandi scrittori del passato; infine, proprio sopra il letto, Andrea scorge le locandine dei films preferiti, anche quelle di qualche tempo fa… cos’è suo figlio: un nostalgico, e di cosa: degli anni 70, del cinema in bianco e nero, degli scrittori ebrei praghesi, dei tedeschi fuggiti dal nazismo, dei russi ottocenteschi con barba lunga e una scrittura interminabile che scoraggerebbe chiunque altro solo per la mole? Riecco il suo sguardo giungere agli occhi dell’altro:

“Magari dovrei davvero mandarti da uno di quei coglioni… strizzacervelli li chiamo io. Sì, lo so che tua zia lo ha chiamato. ‘Aiuto terapeutico’. Ma lo so io come si chiama il tuo malessere: adolescenza, zietta, e l’abbiamo passata tutti!”

 

11.

Sulla panchina in una specie di waste-land, un non luogo costruito dal comune come raccordo pedonale a scalinate tra i due livelli delle strade, poi chiusi perché (aldilà delle risposte ufficiali che dicono: struttura pericolante) subito divenuti regno di riunioni clandestine e rifugio di drogati e dannati (in ogni caso non certo bloccati dalla rete piazzata da qualche solerte assessore), Valerio parla acceso in una delle sue tante sognanti prospettive: beh, stavolta non è che stia volando così in alto…

 

“Facciamoceli prestare, che ci vuole? Qui, è pieno di gente che anticipa i soldi: dieci milioni per uno e cominciamo l’attività!”

La risposta di Alessandro è, se non proprio scettica, almeno nel tono quanto meno raffreddante:

“Quale?”

Valerio non si lascia turbare; si limita ad alzare le spalle:

“L’importante è avere i soldi per cominciare”.

Ale sorride rimettendo le cuffie; vanno bene i monologhi di Valerio, a volte sono perfino divertenti, l’importante è avere un’alternativa pronta: l’ascolto di una musica, la pagina di un libro… tanto Valerio non si scompone, comincia anzi a sbracciarsi e dimenarsi nel tentativo, più giocoso che reale, di convincere l’amico.

 

“Ma perché proprio non c’è giustizia a questo mondo? Io è una vita che gioco la schedina: avessi vinto mai, dico, una volta! Una volta mi avessero detto: ‘Toh, eccoti un bel milione di euro!’ Già, ma a te che ti frega, tu studi, per te è diverso… però dillo che della scuola te ne freghi, anche se magari c’hai tutti ‘distinto’! Invece io devo svoltare, mia madre non mi dà più una lira, dice che devo guadagnarmeli, ma io voglio la macchina, subito: e quanto dovrei lavorare?”

Prende con calma a rollare una canna, anche se quello ‘fatto’ sembra Ale perso nella sua musica e nelle parole di Valerio.

“Io non voglio essere di meno di nessun altro, io, né rischiare per quelle cazzate che faccio ogni tanto per pagarmi la disco o un po’ di fumo”.

Inspira una densa boccata, poi ne offre all’amico che fa cenno di no con la testa.

“O lavoro come dico io, o faccio il salto, quello grosso: un colpo e via, un colpo e via!!!”

 

12.

“E i figli, tutto bene?”,

chiede un po’ distrattamente Andrea mentre si riveste, rimirandosi davanti allo specchio di quella camera da letto un po’ spoglia ma comunque calda grazie al colore delle pareti, delle lenzuola, e a una specie di tendina-baldacchino creata sul letto da Roberta che, già indossata la vestaglia, risponde alla domanda con un cenno affermativo con la testa, e a quella successiva:

“Quanti ne hai? Non ricordo”,

semplicemente mostrando due dita.

“Due, eh… e sì, ho visto le foto di là: bei ragazzi! Ma chissà cosa è meglio: figlio unico, o due, o tre… io…” .

Sta per aggiungere qualcosa, spontaneo, forse aprirsi ma si blocca: magari il gesto concomitante di stringersi il nodo della cravatta lo ha stoppato. Riprende a parlare con tono sicuro:

“Io ho un maschio: gran bel ragazzo! C’è dialogo, tra noi, nessun poblema, e se mai ne ha uno, subito mi parla, si apre… parliamo di tutto, ma proprio tutto! E’ uguale, identico, sputato a me!”

 

Si avviano verso la porta, come ogni venerdi mattina da molto tempo. E come ogni venerdì estrae due banconote da cinquanta euro che tiene già pronte in tasca, fuori dal portafogli, e le lascia sul mobiletto accanto alla porta. Le dà un bacio protendendosi come al solito verso le su labbra che si spostano favorendo il consueto bacio sulla guancia, l’unico da lei ammesso in quel genere di relazione che, per il resto, concede intimità ben più sostanziose ma, evidentemente, meno coinvolgenti dal punto di vista affettivo ed emozionale.

 

“Roberta… ciao. A venerdì”.

“A venerdì”.

 

Lei richiude la porta restando, come sempre, alcuni istanti immobile e pensierosa prima di afferrare quei soldi e infilarseli nella tasca. Siede sul divano e si accende un sigaretto. E’ ormai da un paio d’anni che riceve soldi in quel modo da lui, e non soltanto da lui. Poche situazioni sicure e senza impegno, eppure ancora non si è abituata. Però, quando a fine mese paga le bollette e le varie rate dell’auto, o semplicemente è alla cassa del supermercato, ringrazia se stessa per aver messo da parte certi scrupoli. Accenda ogni volta il televisore, augurandosi di trovare qualcosa di minimamente interessante che la distolga dalla malinconia, restando quasi sempre delusa: cuochi che indicano ricette cariche e poco salutari, quiz di quart’ordine, o la solita detective che da anni risolve tutti i casi allo stesso modo… e se c’è un telegiornale, il suo istinto di donna e di madre va subito in fibrillazione a sentire quanta violenza, malessere, odio e pericoli ci sono al mondo!

 

Il suono del campanello, inatteso, le mette perciò più ansia che allegria, ma poi sorride e parla attraverso la porta prima di aprire:

“Allora, cos’hai dimenticato?”.

Ma non c’è Andrea. Il volto scuro e impassibile del senegalese malvestito che è davanti a lei la sorprende senza turbarla. Guarda quegli occhi impassibili, poi le magliette che reca con sé:

“Non mi serve niente, te ne ho già prese venti la volta scorsa, ma quante credi che riesca a piazzarne nei negozi?”.

Richiude nervosa, sta per allontanarsi ma ci ripensa. Tocca nella tasca quei soldi, trovandoli improvvisamente sporchi e pesanti: assume un’espressione strana, intensa e lontana. Quasi urla attraverso la porta:

“Aspetta”.

Apre e Aziz è già lì, o forse non si è proprio mosso:

“Tieni”.

Gli allunga una delle due banconote e afferra la busta che lui le porge. Richiude senza una parola, si appoggia alla porta con gli occhi sul punto di riempirsi di lacrime: per rabbia, compassione, rimpianto per quei soldi inutilmente dati via? Non lo sa, e per questo getta con forza in terra la busta, con un gemito d’impazienza, o forse d’impotenza.

 

13.

E’ notte fonda, e il salone di casa è rischiarato solo da qualche riflesso lunare. D’altronde non è il caso di accendere luci e rischiare di svegliare qualcuno e doversi subire una qualche specie d’interrogatorio. Quest’accorgimento deve sembrare superfluo a Valerio che esclama un affascinato:

“Bello qui!”.

Il cenno al silenzio è allora d’obbligo, e con Valerio è sempre meglio esser chiari. Ale toglie le scarpe e mormora un

“Torno subito”

dirigendosi verso la sua stanza. L’amico si guarda attorno con crescente ammirazione: certo non deve averne visitate molte di case così… lo colpisce soprattutto il biliardo; sta per tirare una biglia ma ricorda l’ammonimento ricevuto. Allora nota una bottiglia di rhum poggiata lì, e ne scola qualche bel sorso facendo smorfie per il tasso alcoolico. Poi passa la mano su una statuetta liberty insistendo sulle parti più rotonde di quella raffigurazione di donna slanciata ma prosperosa; sfiora il dorso di alcuni antichi libri da collezione; l’occhio gli cade su una serie di cavallini in vari materiali: uno in particolare lo colpisce, forse per l’aria ribelle espressa dal suo impennarsi, o forse semplicemente perché è d’argento e piuttosto pesante… si guarda un istante attorno e lo infila in tasca, appena in tempo prima del ritorno di Alessandro, che gli fa cenno di andare. Nel varcare la soglia della porta i loro visi sono vicini pemettendo al padrone di casa di annusare il fiato dell’altro:

 

“Hai bevuto? Cazzo, poi mio padre se ne accorge”.

“Non puoi neanche bere un goccio a casa tua?!”

 

Ale lo guarda, subendone l’aria dapprima imbarazzata ma un istante dopo già sarcastica, col sorrisetto di scherno che affiora sulle labbra. Osserva la bottiglia sul tavolo verde, la afferra e ne beve quanto più gli riesce, interrompendosi solo per trattenere la tosse che sta per soffocarlo. Valerio gli toglie di mano il rhum e giù altre belle sorsate, al massimo delle sue possibilità. Si guardano finalmente con complicità e a turno bevono a piccoli sorsi fino a quando quando non resta più nulla, tra gomitate ammiccanti e risate trattenute. Valerio deve sedersi sul bordo del biliardo, Ale si aggrappa quasi alla libreria. La testa gira un po’, ma la vista non è del tutto annebbiata.

 

“E il cavallino d’argento, dov’è?”

 

Valerio raffredda appena un po’ il suo ghigno, e tira su col naso per nascondere l’imbarazzo. Riceve un forte cazzotto sulla spalla:

 

“Rimettilo subito a posto, stronzo!”.

 

La vita è così, e se ti beccano non ti puoi lamentare: Valerio tira fuori l’oggetto ma la mano del compagno lo blocca.

 

“Tienilo… un regalo di mio padre, la mia collezione di cavalli: di legno, d’argento, piombo, avorio, plastica… mi piacevano da bambino, me li riportava sempre dai posti…”.

 

S’interrompe, forse un po’ di emozione o forse fastidio per una cosa ormai troppo lontana. Guarda l’amico e lo vede un po’ appannato, col sorriso reso ebete dall’effetto dell’alcool. Respira più volte per riprendersi, e mette le braccia sulle spalle dell’amico, per sostenere lui o se stesso non lo comprende nessuno dei due. Si avviano di nuovo verso la notte.

 

14.

Andrea è in negozio, il suo negozio. Eppure attorno a lui nessun santo di legno, niente crocefissi, neanche una Madonna a rassicurarlo; o, forse, potrebbe sentirsi ben più  protetto da quel bel fucile a doppia canna che è in vetrina, o dalla Beretta calibro 9 che brilla a fianco di altre armi da caccia e da difesa (così almeno si chiamano, anche quelle che sanno offendere benissimo). Si affaccia in strada per rimirare la nuova insegna che porta adesso il suo nome e, rientrato, si appresta a stappare una bottiglia di champagne di fronte a Alessandro e la moglie Marta.

 

“Sentite che domanda! Mi fa: ‘E adesso come farai a conciliare gli articoli religiosi con l’armeria?’. ‘Perché’, gli rispondo, ‘quando la sera faccio i conti, i soldi dell’una o dell’altra azienda hanno unn valore diverso… o il colore, il peso, cosa? Dimmelo tu!’. ‘Eh, non ti scaldare , la mia era solo una domanda’. Bella domanda: sapeva tanto di presa in giro. La butto sullo scherzo: ‘Beh, pensa se eravamo ancora al tempo delle crociate: diventavo fornitore totale!’”.

 

Il tappo della bottiglia schizza in alto come un proiettile, emettendo un suono secco e potente: un buon augurio, secondo Andrea. I suoi cari non ne sembrano così entusiasti, anzi Marta glia ha sempre raccomandato di reggere il tappo con la mano, come richiede l’etichetta della buona educazione… ma non capita tutti i giorni di acquistare un nuovo negozio, e questo è stato proprio un grosso affare, e allora? Non è giusto far schizzare in aria un tappo di bottiglia? Ma sì, in alto i calici, per un brindisi senza ipocrisie, semmai coa un pizzico d’ironia:

 

“Alle crociate!”.

 

15.

Le dita di Alessandro sono aggrappate alla rete che lo divide di pochi centimetri dallo sfrecciare delle auto. Infatti è a livello strada, la zona proibita, quella sotto il ponte che le autorità hanno sbarrato. A giudicare dallo sporco sedimentato in barattoli, tamponi, preservativi e siringhe, non hanno sbagliato troppo. Ora è raro che qualcuno ci si avventuri, anche gli amanti dei graffiti è qualche tempo che non passano più, come dimostrano i colori sbiaditi di quei disegni enormi che cercano di dare comunque un  segnale personale di vita a zone che sembrano per il resto essere soltanto l’ipocrita utopia di qualche architetto che, nel migliore dei casi, ha voluto sbizzarrirsi in un’insolita proposta; nel peggiore, ha solo voluto far spendere qualche soldo in più alla comunità.

 

Deborah è seduta lì accanto, e gioca col suo cellulare. Sta provando le varie suonerie, ha voglia di metterne una nuova.

 

Valerio percorre senza fretta ma col solito suo passo deciso quella waste land fino alla scalinata dietro una delle grosse colonne che sostengono il cavalcavia. Appena li vede allarga le braccia.

 

“Certo vi divertite proprio voi due assieme!”.

Deborah alza le spalle in silenzio: seguita a provare più volte la stessa suoneria, forse ha trovato quella giusta.

“No, io ogni tanto penso: se avessi la ragazza… poi vedo voi e mi dico: che gusto c’è?!” Si accosta alla sorella e le cinge le spalle. “Ma lo fate quando sapete che arrivo io, o è sempre così? No, perché anche se sono tuo fratello, mica mi dispiace se vi date un bacio! Alex, amico mio, daglielo pure un bacetto ogni tanto a questa scimmietta, tanto mica morde!”

“Sempre ponti o cavalcavia: guarda le auto che passano, gli piace, dice… a me non pare che lo rendano così allegro”.

“Infatti, l’uomo tuo è proprio una palla! Mi dispiace perché è mio cognato”.

Finalmente il ‘cognato’ si gira un attimo concedendo un sorriso e un interrogativo:

“Ma tu, Valerio, davvero non ti chiedi mai dove vadano realmente tutte queste macchine?”

L’interpellato si guarda attorno, incredulo, e incrocia gli occhi della sorella:

“Oh, ma che ve siete fatti ‘na canna?!”

A questa battuta Ale torna a rabbuiarsi, o per lo meno a isolarsi con la sua aria da incompreso. E certo non lo tira su la battuta di Deborah:

“No, lo sai che Alex è un filosofo, un vero pensatore”.

“Embeh? Tutti pensiamo, tutti gli esseri umani pensano, perfino gli animali pensano… ecco, forse giusto l’aragosta non pensa, per quanto: che ne sappiamo?”

Si accosta all’amico carezzandolo sul capo come si fa coi bambini.

“Belle, eh? Guarda come sfrecciano! Sei contento? Poi quando compi diciott’anni papà te ne prende una anche a te… come la vuoi: rossa, verde, o blu?”.

L’altro resta impassibile, allora si gira verso la sorella: colla faccia atteggiata al massimo stupore che la sua mimica gli consente, decide di dare il meglio di sé per rianimare l’atmosfera.

“Gli è presa brutta oggi, eh?”

Torna ad occuparsi di Ale, indicandogli le varie auto che gli si fanno incontro:

“Allora guarda: la spider rossa va dritta a Montecarlo, a giocarsi tutto al casinò; quella grigia, beh, a un funerale, niente di grave, gli è morta la cugina; in quella blu c’è un politico, forse scappa; invece lì, il taxi, accompagna una mignotta a battere in centro; e quella lì, come corre… quella fa come me: di corsa a casa, che inizia la partita!”.

Già il pensiero lo eccita, è contento di essersene ricordato in tempo, forse per questo prende a manate e calci la rete: “

Gli rompiamo il culo a quei bastardi, li roviniamo, li frantumiamo!!!”.

 

Si allontana saltellando. Per gli altri due tutto resta come cinque minuti prima.

 

16.

“Roba dell’altro mondo: proprio a me, che in certi posti non ci vado mai! L’insegna nemmeno l’ho guardata, e poi non c’è, lì, l’insegna… ma ero in anticipo, e allora così, tanto per bere qualcosa, una volta che sto in giro, solo, di notte… mi siedo al bancone del pub, la musica è un po’ forte, ma la birra è davvero buona, quella scura, irlandese. Vedo che son tutti uomini, e uno mi fissa un po’ insistentemente, ma che vuoi farci, di questi tempi… così, quando mi scappa di andare in bagno non chiedo a nessuno, vedo una sola porta, apro e c’è una scala: buio, tutto buio; scendo piano piano, attaccato al corrimano, quando arrivo sul pianerottolo comincio a cerare l’interruttore… sento qualche rumore, sì, ma è normale, che ne so, ci sarà qualcuno… solo che invece dell’interruttore mi ritrovo in mano… sì, sì che hai capito: un coso, lì, proprio un bel coso grosso grosso! Penso sia proprio il bagno e che qualcuno stia facendo le porcherie di nascosto: sferro subito un pugno, e sto per tirare fuori la mia, di pistola, la 38 special, quella vera! Arrivano due energumeni, grazie a Dio vestiti, e mi tirano fuori… un casino! Ma in fondo, gli interessava solo non avere rogne nel loro locale, e figurati se io volevo uno scandalo. Ma hai capito cos’era, eh Alessandro?”.

La sollecitazione stavolta non serve, il figlio è lì, seduto a tavola accanto a lui mentre la madre è già di là: uno dei suoi soliti mal di testa, sempre più frequenti e meno credibili.

“Ne sapevi niente, tu, di questi locali? Eh, un posto così non lo trovi tutt’i momenti, grazie a Dio! ‘Dark room’, lo chiamano: stanza buia. Si mettono tutti nudi, lì, al buio, o anche vestiti, il bello è che puoi fare quello che vuoi, senza sapere con chi, con quanti… dicono sia il ritorno al primitivo, la liberazione, un mondo fatto di corpi, odori, tattilità… belle scuse: brutti froci! Comunque volevano prendermi gli estremi del documento, controllare, non volevano crederci che io non ne sapessi niente. Per fortuna, è proprio vero che il buon Dio manda sempre qualcuno a dare una mano a chi se la merita: a un certo punto non ti vedo entrare il dottor Salemi?! Sì, il direttore della filiale…  beh, all’inizio voleva far finta d’essere lì per caso… macché: conosceva tutti, ha garantito per me… da non crederci: padre di tre bambini!!!”

 

Il racconto sembra finito, e Alessandro fa per alzarsi, senza commenti, ma questo è normale; più incisivo del solito, invece, è lo sguardo di Andrea:

 

“No, lo so che devi andare, te lo racconto solo per metterti in guardia: attento quando giri, la notte. Dio, sai qual è la cosa peggiore che può capitare ad un padre? Un figlio finocchio!

 

17.

Deborah siede sul motorino, e presenta alcune novità: è un po’ truccata e indossa un vestito colorato molto femminile. Sopra, il solito piumino invernale che, in realtà, non lega molto.

 

“Non mi dici niente, guardi solo le auto?”

Si alza e gli va accanto con aria insolita per lei, un po’ più ‘gattina’. “Ho quasi quindici anni, tutte le mie amiche lo hanno fatto, e anche tu l’hai fatto… allora, perché con me no? Non è vero che ti piaccio… non abbastanza? Se è così, che vieni a fare da queste parti? Ti vedevo, sai, che bazzicavi il mio palazzo… lì sotto, guardavi, giravi… che facevi? Come allo zoo, venivi a spiarci? Ma no, forse ha ragione mia madre: vesto poco femminile… allora guarda!”

 

Alessandro stacca definitivamente lo sguardo dalla strada alla quale per tutto il discorso di Deb non aveva rinunciato che per qualche rapidissima occhiata. Vede la sua ragazza che con un gesto netto si apre i bottoni automatici del vestito mostrando una ‘combinazione’ un po’ demodé, evidentemente presa alla madre che, lei stessa, non ne fa molto uso: calze, mutandine e reggiseno, tutto rosso. Lui apprezza, senza particolari sobbalzi. In un impeto tra rabbia e orgoglio lei, delusa, va a schiacciarsi contro la rete del cavalcavia, tenendo il vestito aperto con le due mani.

 

“Ecco, sarà un bello spettacolo, almeno per le auto che passano”.

 

Chissà se dal basso qualcuno ha notato l’insolito panorama che, comunque, almeno un risultato l’ha avuto: quello di smuovere Ale costringendolo ad abbracciarla per richiuderle l’abito addosso.

 

18.

Andrea è nel letto di Roberta che sta accendendosi una sigaretta. Un modo semplice, insieme all’alcool, per allontanarsi un po’ da discorsi che si preferirebbe non ascoltare.

 

“Proprio così: la cosa che mi farebbe più schifo, te lo giuro, non sarebbe nemmeno quella di andare con un uomo: io attivo, natuarlmente. Quello che proprio non potrei sopportare sarebbe di andare con una che, anche dieci anni prima, non importa, si fosse fatta toccare, baciare, fottere da un negro! Ho come l’impressione che invisibili scaglie, pulviscoli di quella loro pelle così scura, che non riesci mai a capire se sia sporca o no, ti resatassero attaccati addosso… è una sensazione mia, personale: non c’entra niente il razzismo”.

 

Lei indossa la vestaglia appena scesa dal letto:

“E’ tardi”.

 

Lui invece ha voglia di parlare. O altro:

“Eppure, le loro donne sono diverse. A me le negre, con tutto quel senso di… repulsione, quasi… beh: mi tirano da morire!”

 

Le afferra un braccio tirandola sul letto. La vestaglia, non ancora chiusa, si apre lasciando scoperta la carne chiara e rosata di Roberta. La fissa un istante negli occhi, lo sguardo molto espressivo:

 

“Mi dai ancora qualche minuto?”.

 

19.

Nell’ampio salone di casa sua, Alessandro ha momentaneamente depositato Deborah mentre è nella sua stanza per prendere un libro. E’ la prima volta che lei entra lì, e certo si aspettava altre effusioni dal suo ragazzo: ma ormai lo sa com’è fatto, però, com’è tipico nelle coppie, specie quelle più giovani, c’è sempre speranza che l’altro/a cambi… diventando, guarda caso, esattamente come lo/la si vorrebbe. Per questo compie un tentativo gridando verso l’interno della casa:

 

“Non posso neanche vedere la tua stanza?”

“Ho fatto.”

E sì, ha fatto! Meglio approfittare per godersi la vista di quello spazio ampio come tutta casa sua, pianoforte biliardo divani tavolo grande camino librerie… e soprattutto quell’enorme televisore incollato alla parete! E’ così presa a rimirare il tutto, che l’arrivo di lui la coglie di sorpresa facendola sobbalzare. Accenna subito al libro che lui tiene in mano, lei non lo conosce, cos’avrà di tanto urgente da comunicargli questo -come legge sulla copertina- “Giovane Holden”?

 

“Non potevi aspetatre a leggerlo?”

“No”:

“E perché?”

“Mi andava”.

“Porti a casa la tua ragazza, non c’è nessuno, e tu pensi solo al tuo libro?”

“Usciamo, questa casa è una gabbia”.

 

Prima di pronunciare questa frase, lui ha taciuto per un attimo, come riflettendo, come se certe parole pesassero più di altre. Ora qualche istante sta zitta anche lei, tornando a guardarsi attorno.

 

“A me piace moltissimo”.

“Beh, la mia era solo una metafora”.

 

La prende per mano come a trascinarla via. Ora sono sui sampietrini di una di quelle strade della vecchia città che a lei piacciono tanto. In più, qui ci sono anche tanti alberi, che in centro non sono così frequenti. E’ proprio il caso di sfruttarli: sovrastata da quelle foglie, la vergogna perde peso; si appoggia ad uno di loro e afferra le mani di lui.

 

“Senti…”

“Sì”.

“Devo chiederti…”

“Dai”.

“Metafora… io questa parola non l’ho mai capita bene. Tu sai veramente cosa vuol dire?”

Ale sorride, divertito ma soprattutto rassicurato dal tipo di richiesta, davvero non troppo impegnativa.

“Sì, lo so… ma a spiegare non sono bravo… è una figura retorica… ecco: ‘Sei un fulmine’, per dire che sei veloce”.

Lei gli sorride compiaciuta, lo abbraccia ponendo il capo sul suo petto, affidandosi al suo uomo che tanto sa!

 

“E’ bello sapere le cose! Voglio studiare di più anch’io, e leggere: non ho mai letto un libro!” Ma anche lei ha le sue idee, capisce le cose e può darne un esempio: “Allora, quando uno dice: ‘Quella lì è una troia, è una metafora!”

 

20.

Una signora sale sulla sua Mercedes classe A grigia metallizzata dopo aver sistemato i pacchi della spesa. Veste elegantemente a dispetto di un viso scavato, ormai scarno, segnato palesemente dai danni di una malattia che le dispensa un colorito giallo e capelli radi: la sola cosa, questa, che può nascondere, annodando sul capo un foulard griffato. All’interno della sua auto piccola e un po’ malridotta, Roberta parla alla figlia che sta finendo di sistemare i pacchi sul sedile posteriore. Il suo tono, come il suo sguardo, è di profonda, intensa partecipazione, ma anche stupore, ansia, paura.

 

“Guardala là, non riesco a crederci… hai sulle palle una persona, così, senza motivo, peché non ti saluta, ti sembra che si dia troppe arie… magari perché neanche ti riconosce; o forse invidi la sua auto, i suoi vestiti, gioielli, scarpe e borsette… fatto sta che le ho sempre mandato tanti accidenti! E ora, eccola lì… ti viene addosso, il male: improvviso, impietoso, ingiustificato. E ti chiedi perché proprio a lei, e non a te… infatti, se tu stai bene, ti senti quasi in colpa! Ci avrò scambiato sì e no dieci parole, in tutti questi anni, però a volte le ho mandato mille accidenti… ma quelli… non contano. Però, mi sento colpevole: perché?!”

 

Stavolta Deborah ascolta con attenzione. E’ sempre colpita quando la madre fa certi discorsi, perché dimostra sensibilità, interesse per gli altri, per i meccanismi della vita. E questo lei sa apprezzarlo, forse proprio perché lei riesce poco a farlo, presa dall’immediatezza dei suoi istinti e problemi, prima di tutto Ale: gliene frega di lei, o no? Forse lei è troppo futile per lui, dovrebbe fargli certi discorsi, come sua madre, a lui piacerebbero… chissà, a lui non piace parlare troppo… dovrebbe mettersi a studiare, questo sì, e leggere; ma ogni volta che prende in mano un libro le viene così tanto sonno!

 

21.

Andrea rientra a casa verso l’ora di pranzo. Non è una regola, resta quasi sempre nei paraggi dei suoi negozi, tanto più che spesso ci trova solo la cameriera che rassetta: Marta è certamente in palestra o dalla madre o al bridge o dove le pare: da parecchio non segue più le informazioni sugli spostamenti che ella gli dà… comunque non è male, di giorno, restare soli: forse meglio di quando, la sera, in casa, non si sa bene che dire, e spesso ci si impantana in interminabili discussioni… su Ale non si può mai contare, è un periodo che è così difficile seguirlo…

 

Si dirige subito al mobile dell’ingresso, dove viene poggiata la posta. La controlla:

 

“Ecco qua: bolletta gas, pagamenti, banca… le annuali cartoline natalizie dei disabili… toh, che bello: una contravvenzione!”

 

Suona il campanello di casa, qualcuno che rientra, chi sarà?

 

“Vado io”, grida verso l’interno, caso mai ci fosse qualcuno. Guarda dallo spioncino, e riflette,un poco sorpreso. Allarga la giacca sul lato sinistro mettendo in mostra la fondina ascellare che ospita la sua colt 38 special. Fin da ragazzo aveva avuto passione per le armi, certo stimolato dal padre militare, e un militare di allora aveva fatto la guerra… ora, da quando ha l’armeria, ha preso quest’abitudine. Comunque sia, in questo caso, non c’è certo bisogno di estrarla: importante è far sapere che c’è all’individuo sconosciuto che è lì, dietro la porta della sua abitazione!

 

“Allora, fratello, desideri qualcosa? No? Allora, ecco, vedi di girare al largo!”

 

Richiude la porta lasciando quel giovane uomo immobile sul pianerottolo, il volto nero coi capelli crespi, enormi labbra e occhi neri come il carbone: sicuramente un nordafricano, probabilmente del Senegal. Toglie la giacca e ora l’arma è ben visibile. Attraversa il salone, entra in cuina, riesce dall’altra porta, percorre il corridoio, esamina il bagno, la stanza ospiti è vuota, così la sua, in fondo c’è quella di Alessandro…

 

“Bravo!” Oh, gli piace aver trovato suo figlio in casa, e a torso nudo, a fare le flessioni. “Hai sentito il campanello? Indovina chi era… siamo arrivati a questo: ora i negri non si accontentano più di semafori, spiagge e mercatini. Vengono pure a suonare il capanello! Era proprio un negro, sì, e da come era vestito,avrebbe potuto essere amico tuo!”

 

22.

Su un ponte pedonale della Roma storica, Alessandro è affacciato sul fiume con accanto il ragazzo di colore, Aziz. Sebbene fredda la giornata è luminosa, il sole riplende in modo ideale per accompagnare la musica di percussioni del gruppo senegalese che è lì per raccogliere qualche soldo divertendosi a rallegrare la gente che passa e che infatti spesso si ferma ad ascoltarli inspirando un po’ di quella calda, generosa vitalità.

 

“Com’è che si chiama?”

“Yamoussoukro”

“Come?”

“Yamoussoukro, ya-mous-so-ukro”.

“Eh, che ficata: piacerebbe anche a me essere nato in un posto con un nome così… mi sa proprio di bello!”

“Sì, è bello”

“Anche i tuoi amici sono belli, proprio simpatici, però se continui a frequentare solo quelli del tuo paese, l’italiano quando l’impari?”

 

23.

Un altro ponte, un altro amico per Alessandro.

 

“Lo vuoi sapere quanto avrei, adesso, per partire?”

Valerio estrae dalla tasca del jeans qualche banconota di piccolo taglio, un po’ stropicciate. “Ecco, vedi? Venti euro, e va pure bene… perché poi ci sono tutti gli spicci, eh: con l’euro, pure quelli sono un valore!” prende a contare le monete, come a dar credibilità al suo sarcasmo. “Ma te l’ho detto: facciamoceli prestare: un amico mio ha preso un furgone usato, a rate e senza anticipo. Ora fa due, tre trasporti al giorno, tre quattro ore, massimo cinque o poco più, e guadagna un sacco di soldi: ci stai, eh, ci stai?” Nessuna risposta, solo un sorrisetto scettico, cui replica con una veloce serie di pugni sulla spalla, ma l’altro non reagisce, allora che gusto c’è? Anche lui si smonta. “Sai che palle… si comincia così, si dice: “Per un po’”, poi continui così, tutta la vita, alla fine sei vecchio e non sei un cazzo di nessuno!” Guarda l’altro un poco sprezzante: “Certo, ma a te che te ne frega? Domani è Natale: che ti porta Babbo Natale?”

 

24.

Un capannello di gente guarda verso l’alto, laddove la facciata di una chiesa barocca non esibisce solo le consuete statue di marmo raffigurando il papa o il santo di turno: oggi, lassù, un uomo in carne ed ossa, arrampicatosi sul cornicione, ostenta una lattina di plastica piena di benzina; nell’altra mano stringe una torcia già accesa. Andrea ha un po’ fretta, ma anche curiosità, perciò si unisce al gruppo degli osservatori, e individua un giovane tra i trentacinque e i quarant’anni.

 

“Che succede?”

“Quel tipo… si è cosparso di benzina, vuole darsi fuoco perché l’hanno licenziato”.

“E per uccidersi, verrebbe qui?”

L’altro fa un’alzata di spalle e torna a guardare in alto. Ma Andrea ha voglia di dire la sua.

“Figuriamoci: e perché non potrebbe farlo a casa sua, se è così disperato? Ian Palach l’ha fatto davvero, in piazza, si è immolato. Lei è giovane, ma lo sa chi fosse?” Senza attendere risposta, prosegue: “No? Era un ragazzo di Praga, e a Praga c’erano i carri armati sovietici: sa almeno chi fossero i sovietici? I comunisti, sì: quelli che adesso hanno cambiato nome! Si è dato fuoco, e la sua immagine ha fatto il giro del mondo. Vuol venire con me? Venga, su, le mostro qualcosa”.

Si fa avanti tra la folla e l’altro lo segue con aria incerta ma anche curiosa, divertita quasi. Giungono in prima fila, dove un poliziotto li blocca.

“Perché mi ferma? Posso risolvere il problema: voglio offrirgli un lavoro”.

 

Ma l’agente preferisce attenersi alle regole, di confusione ce n’è già abbastanza.

“Per favore, stia indietro. Se la latta prende fuoco…”

Torna a dedicarsi al giovane.

 

“Peccato, la lezione è annulata. Non che debba assumere nessuno, figuriamoci: con la crisi che c’è! Ma conosco il tipo, non accetterebbe mai. Uno che fa così il pagliaccio vuole solo far casino per essere mantenuto dallo stato, cioè da me, da lei, da tutti noi…guardi: polizia, pompieri, tutti a fare il loro dovere, per carità, ecco l’estintore… ci manca giusto l’esercito tanto si sa: paghiamo noi, che stiamo pure qui a perdere tempo! A proposito, lei non lavora? No, perché io devo aprire il mio negozio, ma prima se vuole le offro un caffè, col cornetto! Le va? Cinque minuti, poi devo andare”.

 

L’altro sorride non sapendo bene come giudicare questo strano incontro, comunque prende a fendere la folla in senso inverso, seguendo Andrea che continua a dire la sua.

 

“Le ripeto che non succederà niente, neanche una piccola ustione di primo grado… bel furbo!”

“Beh, via: meglio così!”

“Certo, certo che è meglio cosi, poveraccio!”

 

L’argomento tiene ancora banco davanti a due fumanti cappuccini.

 

“Certo che, per una volta che puoi vedere una tragedia dal vivo, esserci realmente dentro… se vuoi vedere cose forti davvero, coi particolari, magari al rallentatore… devi proprio accendere la tv. A lei cos’è che piace?”

“Principalmente il calcio”. Il giovane coglie nel suo interlocutore una smorfia poco entusiasta, così rilancia: “E i cavalli”. Ora sì che viene apprezzato: “Naturalmente: è il mio lavoro”.

“Ottimo!”

 

Andrea poggia la tazza con l’aria di dover proprio andare. Giusto il tempo per presentarsi, ancora non l’hanno fatto. 

 

 

25.

Alessandro e Deborah siedono sul divano, di rronte al televisore al plasma, che solo lei guarda; lui legge una poesia di Pasolini. Almeno fin quando le circostanze glielo consentono.

 

“Sicuro che non torna nessuno?”

Il cenno di lui la rassicura.

“Bene! E qui non puoi guardare le auto che passano… parliamo? Così, niente di particolare, solo parlare ma lo so, ogni parola dovrebbe avere un prezzo… simbolico: quanto dicevi? Tre centesimi? Così tutti le peseremmo di più… questo però può valere coi tuoi, coi proff… ma mi hai scelto, no?”

Il suo sguardo si fa ancora più intenso: non solo una ricerca di complicità, ma quasi di aiuto.

“Se leggessi anche io? E se tu guardassi i programmi che guardo io?”

Afferra la mano di lui e se la porta sul seno, ma forse no: sul cuore.

 

26.

Andrea è a pranzo in una delle ormai rare,  piccole trattorie che ancora sopravvivono in centro.

 

“Adesso, caro Marco, voglio dirti la verità, che altrimenti, qui, giochiamo tutti a fare i progressisti, gli intellettuali, e abbiamo paura di guardare in faccia la realtà. Io, poi, posso parlare, non sono mai stato un estremista: mio padre è sempre stato un democratico, e do un sacco di soldi alle associazioni missionarie che fanno del bene, in Africa! Però, da noi, sono proprio questi cazzo di negri che creano casino! Religione, malattie, contrabbando… e con loro i polacchi, e gli albanesi, e i cinesi… ecco, signori politici: facciamo entrare pure gli eschimesi, fa freddo lassù, vengano qui che c’è pure un bel clima, negozi colmi di roba, strade piene di belle donne, sì, mettiamoci pure le donne! Perché a me non importa, sono sposato e la parte mia l’ho fatta… ma tra qualche anno sai quante nostre donne correranno appresso a loro? Non agli eschimesi, che a quelli col freddo gli si ritira; ai neri, perché, lì sotto, sono messi bene: sono più animali, hanno energia da vendere; almeno, così si dice… io però aggiungo che il cervello l’hanno sempre usato poco, altrimenti non finivano schiavi di nessuno, E le loro donne non le sbatterebbero sulle strade!”

 

Il giovane da poco conosciuto è di fronte a lui, modulando un sorrisetto di circostanza che dovrebbe coprire un po’ d’imbarazzo: si sta chiedendo se sia stato il caso di rivedersi, però bisogna ammettere che a modo suo quell’Andrea è simpatico, con tutta questa voglia di parlare, straparlare… forse in negozio si annoia, forse non sa con chi aprirsi… beh, se è per questo anche lui, per quanto voglia bene ai suoi cavalli, non può dire che siano dei chiacchieroni. “Non sono d’accordo proprio su tutto, ma è vero che il problema esiste”.

Ora il sorriso diviene aperto e senza ombre:

“Ah, ecco Valeria. Avevamo appuntamento qua fuori, sto un po’ in ritardo”.

 

“Sono in due”.

“Sì, lei è Valeria”,

dice Marco riferendosi alla sua compagna che accoglie con un bacio; poi presenta anche l’amica:

“E lei è Angela”.

“Angela: gran bel nome… “

In realtà Andrea sembra più colpito da quegli occhioni verdi, vivaci ma nei quali è innegabile un velo di tristezza, timore, fragilità. Però è ora di riprendersi: “Beh, anche Valeria è molto bello... scusate, devo andare. No!”,

quasi grida fermando la mano di Marco che sta prendendo in mano il conto. “Non ti preoccupare; qui è zona mia”.

 

27.

Anche il biliardo è zona sua. Alessandro non ci gioca mai, mai che portasse amici a divertirsi, lì, almeno presenterebbe qualcuno a suo padre.

 

“Alessandro, te la fai una partita? No, eh? Ma non startene sempre lì con quelle cuffie nelle orecchie”.

“Tanto è spento”.

Evidentemente non teme che il padre si accorga che il cd sta girando nel lettore.

Andrea prende in mano la stecca e mira il triangolo di biglie disposte dall’altro lato.del tavolo verde:

“Come ti stavo dicendo, ho parlato a lungo con questo giovane: ragazzo semplice, ma educato e per bene. Si occupa di cavalli e di calcio, ma sugli altri argomenti è un po’ limitato, non che ne sappia molto: per esempio è rimasto di stucco quando gli ho spiegato che il settanta per cento dei beni artistici mondiali è qui da noi… tu lo sai già, no? Ti ricordi, a te l’ho già detto. Tu dirai che tutti questi che vengono da fuori se ne fregano di chiese, palazzi, statue… invece no: hanno fiuto, sentono che qui c’era il dominio del mondo. La ‘pax romana’ esportata in tutto il mondo! ‘Con le armi’, ti sei degnato di rispondermi una volta… lo so: ma la armi non le hanno inventate i romani, hanno solo saputo usarle meglio degli altri, per difendersi nel benessere e poi vivere in pace… sennò addio ricchezza, arrivavano da ogni parte e si prendevano tutto, come poi è successo coi barbari e come potrebbe riaccadere… oh, ma dov’è finito il cavallino d’argento?!”

Gli occhi sono caduti proprio su quello spazio vuoto, tra il quadrupede d’avorio e quello di onice.

“Cristo santo, Alessandro, lo hai preso tu? E adesso che fai, mi prendi anche il cellulare? Ma come, te l’ho regalato e non l’hai voluto!”

“Papà, mando solo un messaggio”.

“Fai fai… io vado a riposare una mezz’oretta”.

 

28.

Cristo santo, Deborah: non so

Come spiegartelo.

Un discorso… parole

Che da tanto vorrei dirti ma

Ogni volta che ci provo restano qui

In gola, o più giù, alla bocca

Dello stomaco, perché sono parole

Che vorrei vomitare,

Entrate contro

La mia

Volontà

E vorrei riespellere, una volta per tutte.

Come un cibo avariato: ingurgiti

Senza chiedere valutare osservare. Poi

Ti accorgi che tutto è bacato tutto

Pieno di vermi: le

Parole che sento, quelle che

Talvolta

Leggo sui giornali, le frasi

Degli insegnanti che anno dopo anno

Ripetono

Termini stanchi di cui

Han perduto ogni significato

Ulteriore. Dov’è

La gente

Vera? Perdio c’è

Un posto dove parlare

Per

Essere ascoltati, non dico

Capiti: semplicemente

Ascoltati, senza essere

giudicati derisi contraddetti

Alla ricerca di parole

Nuove –nuove anche se già dette-

Parole create

Parole sensate ma

Parole libere, senza tornaconto,

Contraddittorie ma tutte

Vere

Personali autentiche schizzate

Dal cuore

Come fiotti di sperma

Anche qui, Deborah, son venuto

A cercare un mondo

Diverso, non impregnato dal mastice del

Denaro successo esteriorità

Che assurgono a valore. Credevo,

Sciocco ed illuso,

Di trovarlo appena uscito

Dai vuoti palazzi di una borghesia

Indecente

Ed incolta,

Ingiustamente improvvisamente eccessivamente

Arricchita che sa spesso

Parlare solo attraverso il marchio di

Una macchina un vestito un orologio,

Dove comunicare è divenuto

La stressante evanescente esibizione

Di un prepotente talismano codificato

Completo di antenna e batteria.

Altre antenne inglobano immagini

Decodificate in quadri fibrillanti

Così reali da distruggere il reale.

Foreste di cellulosa

Appesantite dal piombo divengono

Pantagruelici fogli di parole

Superflui annientatori

D’indispensabili dispensatori d’ossigeno

… Alberi  muoiono mentre

Fabbriche dell’inutile scaricano

Tonnellate di aria tumorale tra

Sfuggio di monili ricavati da

Quintali di carne animale lasciata

A marcire. Pelli di bestie

Scuoiate per ricoprire la pelle

Di altre bestie. Terre

Scavate montagne violate per

Trovarvi la luce di quelle pietre che

Orneranno le dita

Di una sposa o di una troia,

Smaltate come cofani di fuoriserie  o fuoristrada che

In barba al loro nome percorrono

Strade metropolitane trafitte da

Sirene rombi vapori

Spostamenti soventemente superflui

Di gente allo sbando senza sapere di esserlo

Che insegue certficazioni comprovanti

Il nulla che siamo.

Il nulla.

Qui, Deborah, speravo di trovar gente

Diversa, chissà perché,

Ingenuo e sciocco, lo so! Il mondo è

Una grande omologazione.

Temo solo il giorno in cui

Potrò andarmene e girare come vorrei,

Lontano: perché so che allora mi sarà tolta

Ogni illusione perché

Avrò conferma che il mondo non è

Che clonazione di se stesso. Chissà,

Spero di sbagliare, pronto a ricredermi:

Con gioia assoluta! Forse

Il mondo è diverso

Altrove si può

Ancora sentire il profumo di un fiore

Ancora seguire il volo di un falco

Ancora ascoltare scorrere un ruscello

Attraversare una strada senza paura

Di essere travolti . Non so.

Vorrei solo poter vedere perché spero

Sinceramente

D’essere io a sbagliare e che questo

Sia il mondo migliore che potessimo

crearci! Altrimenti sarò

costretto a pensare che i nostri

Padri

Nonni

Avi

E così via per mille e mille generazioni e ancora:

Hanno sbagliato tutto!

Cerco qualcosa ma non so

Dove: cerco e non so

Cosa cercare. Vorrei solo

Che in fondo a sbagliare fossi davvero

Io, Deborah.

Deborah.

Oh, Deborah. Finalmente ci sono riuscito:

Ti ho parlato.

Davvero.

Grazie.

­­­­

29.

Alessandro ora è solo, di notte, sul cavalcavia. Guarda le scie dei fari delle auto scorrergli sotto, mentre un altro faro gli si accosta, al suo livello, anzi addirittura sul marciapiedi, ma lui neanche si gira, tranquillo, sa chi è.

 

“Ciao”.

“Ciao”.

 

Ancora prima di togliere il casco, Deborah mostra il suo cellulare, stretto nella mano destra.

 

“Ma sei tu che mi hai mandato quel messaggio strano?”

“Lo sai che non ho cellulare”.

“Secondo me sei tu, anzi ne sono sicura. Dal telefono di tuo padre. Ho chiamato il numero segnato… non lo sai che c’è scritto il numero quando invii un messaggio? Mi ha risposto un uomo grande, io ho riattaccato: son sicura che è tuo padre! Ma che vuol dire? E’ bello, mi è piaciuto un sacco specie quando parla dei proff, però è troppo lungo, e parla di troppe cose… me lo spieghi? Peché non me lo ripeti a voce? Eccoti qua, già non parli più.. comunque sia, so che è tuo e mi piace: l’ho salvato in memoria, poi me lo voglio scrivere… no sul diario sennò quando a scuola me lo leggono e mi prendono in giro… lo terrò per me, ora almeno ho una cosa tua, che hai fatto per me e sarà sempre mia…”.

 

Stringe sul suo petto Alessandro che l’ha guardata per tutto il tempo, spesso con uno strano sorriso, che ora diventa riso, forse un po’ forzato dapprima, ma poi sempre più vero, quasi liberatorio. Deborah allora fa l’offesa e si allontana. Scavalca la rete raggiungendo lo squallido interregno sottostante il cavalcavia, a livello delle strade in basso. Lui le va dietro senza fretta ma deciso, sa che più di tanto non può allontanarsi, là sotto finisce subito con altre reti che delimitano: infatti eccola là, stavolta lei è appoggiata alla recinzione ma forse non guarda le macchine, forse ha gli occhi chiusi, forse piange, chissà! Ale prende a baciarle il collo cingendola con le braccia che stringe forte attorno al suo corpo ancora un po’ infantile. Le si schiaccia addosso, appoggiati alla recinzione metallica e fredda cui lei si aggrappa indecisa se continuare a fare l’offesa o godere di questo imprevisto e insolito insieme di gesti che proseguono con crescente ardore mentre le solleva la gonna accarezzandola solo un attimo prima di scendere sotto le mutandine. La mano prende a muoversi e lei sobbalza, sorpresa, e si gira verso di lui baciandolo con passione. Sospirano assieme finché lui si ferma per trovare il tempo di slacciarsi i pantaloni e abbassarli provando a penetrarla.

 

“Ale, no… non così, la prima volta”.

 

Lui insiste, riprendendo a carezzarla con la mano e strofinandosi contro di lei che prova un piacere sempre più amplificato dall’ora, dalla situazione, perfino dal degrado di quel luogo. Solo quando lui la penetra prova a ribadire la frase di poco fa, ma ormai i gemiti di piacere e di dolore si stanno già mescolando per divenire poi una libera espressione di gioia che la fa concedersi completamente.

 

30.

Andrea si rimira allo specchio, piuttosto soddisfatto. Dietro di sé ha il commesso di un negozio piuttosto di lusso che lo guarda compiaciuto, o forse compiacente, blandendolo con voce suadente e un po’ affettata, erre moscia e aria un po’ blasé, arricchita da quel tanto di raffinata gayté che fa tanto haute couture:

“Giusta per andare alla partita, ma anche per un pranzo informale…”

Il cliente fa un giro su se stesso e prosegue la frase, confermandola ed arricchendola:

“…un’inaugurazione, un cocktail, o una riunione della Confcommercio! Ne prendo una uguale anche per mio figlio”:

“Bene”

“Anzi… non proprio uguale, e poi è un po’ più alto:magari passa lui a provarla, chiederà di lei che è così bravo: lo convinca a comprare qualcosa di un po’ carino, conosce i ragazzi…”

Sì che li conosce i ragazzi, anzi: vorrebbe conoscerne sempre di più!

 

31.

Anche Deborah fa un giro su se stessa esibendo una minigonna pieghettata. Anche il resto dell’abbigliamento è più curato rispetto al solito, e i suoi occhi truccati su guance velate di cipria.

 

“Allora, sto bene?”.

Va ad abbracciare Ale che la osserva appoggiato alla rete.

“Mi sa che mia madre lo ha capito: la prima volta che indosso una gonna così corta, che mi curo di certe cose… le ho perfino chiesto d’insegnarmi come ci si trucca”.

Gli prende il volto tra le mani.

“Lo so che il trucco non ti piace. Ti piaccio come sono, vero? Uffah, sei proprio un musone, ma oggi non ci riesci a tirarmi giù: sto bene, benone, benissimo, benissimissimo strabenissimissimo!”

Poggia la testa sul capo di lui.

“E’ stato bello, sai? Bello bellone bellissimo. Adesso dobbiamo fare tante cose: per te, per me, per noi: cambiare!”

 

32.

“Cambierebbe tutto!”

Valerio è solo, in strada, e a volte ama volare un po’ con la fantasia.

“Ipotesi A: cammino per strada, m’incontra un ‘mister’, sì, l’allenatore di una grandissima squadra di calcio momentaneamente in ribasso. ‘Vieni a fare un provino con noi, ti ho visto ieri al campetto, sei uno con le palle; se vai bene, domenica giochi’, La domenica entro in campo, e subito segno un goal, magari per fortuna: mi sbatte addosso il pallone, rimbalza sulla mia schiena, comunque sia è goal!Contratto da un milione di euro, e non accetto un euro di meno! Oppure, variante B: cammino sempre per la stessa strada, m’incontra un director, sì, un grande regista di Hollywood, o molto al limite anche Cinecittà, se ancora funziona, non lo so, devo informarmi. No, variante C: vado a un telequiz, magari di quelli un po’ facili, meglio se un po’ truccati”.

 

33.

Davanti al suo televisore, Andrea assiste a un vecchio filmato in bianco e nero che ripropone Lucio Battisti che canta ‘Pensieri e parole’.

“Che ne sai tu di un campo di grano?…”

Andrea in effetti ne sa poco, però sa che gli piace quel pezzo, e chi lo canta. “Alessandro, vieni a sentire che bella canzone, Alessandro: non perdetevi questo patrimonio di cantanti italiani! Anzi, prendi esempio, trovati anche tu una molla: sì, una molla che ti faccia scattare su, in alto! Ecco: guarda Lucio Battisti, un ragazzetto nato in un paesino di una zona abbastanza depressa. Quand’è morto, alcuni giornali non hanno saputo fare altro che dibattere se era o non era di destra: che Paese del cazzo, il nostro! Comunque, destra sinistra o centro, poteva restare lì tutta la vita, magari a zappare la terra, invece ha preso la chitarra e, senza conservatorio, senz’avere una grande voce: ha scritto musiche eccezionali, e inventato un modo tutto suo d’interpretarle, supplendo così alle sue carenze. Capisci? La molla! O, se preferisci, le palle!”

Per dare più forza al suo finale, Andrea apre il coperchio del pianoforte che nessuno ha mai suonato ma che secondo sua moglie fa tanto arredo, e colpisce a caso la tastiera, rimpiangendo di non avere lui stesso mai imparato ad usarlo e, dunque, quella spesa inutile: vibra nell’aria un suono sordo e stridente che mal sottolinea gli applausi che sgorgano dal video.

 

34.

Ale e Aziz sono su un ponte centrale, ma piuttosto nuovo, che serve come attraversamento per la linea A della metrpolitana. Al primo piace questa contaminazione del nuovo che penetra nell’antico, cosa rara nella sua statica città che a malapena sa valorizzare quello che ha già. Certo, per fortuna da qualche anno la situazione sta cambiando, qualcosa si muove, un attivismo che cerca di recuperare il tempo perduto: perché, certo, se l’esempio dovesse essere questo binario separato dalla strada con cristalli imbrattati di graffiti…

 

“Alanika svabila. Giusto?”

“Giusto!”.

“Ora impara tu questa frase, e mettitela bene in testa: ‘Devo trovarmi un lavoro’”.

“Devi trovarti lavoro”.

“No, no, non io. Tu, tu devi trovarti un lavoro!”

 

Ridono, e ancora più apertamente dopo che, con un certo sussiego, Aziz ripete frasi tipicamente romane che suonano così strane in bocca a lui.

 

“Ogni cosa a suo tempo. Mia madre c’ha messo nove mesi pe’ famme”.

 

35.

Andrea siede di fronte ad Angela in un elegante caffè. Hanno davanti due fumanti tazze di cioccolato.

 

“Allora, come mai questo appuntamento?”

“No, così… volevo farle sentire che buon cioccolato fanno in questo posto. L’altro giorno diceva alla sua amica che non riesce a trovarne uno buono”.

“Sì? Ma, forse parlavo di qualcos’altro”. “

“E cosa, se è lecito?”

“Magari degli uomini”.

“Siamo tutti così cattivi?”

“Più che altro stronzi, direi”.

“Lei è molto sincera, anzi… esplicita!”.

“Mi piacerebbe che lo fosse anche lei. Si stacca dai suoi santini e le sue madonne solo per farmi assaggiare un cioccolato?”

“…Sì”.

“Lei è anche ipocrita. Forse è normale, ha il doppio dei miei anni”.

“Beh, io le ho chiesto solo di poterle offrire qualcosa quando fosse passata… d’altronde abita qui vicino, non ci vedo nessuna malizia”.

“Non ho parlato di malizia, ma… ‘malizia: lei pensa di avere ancora l’età per potere essere malizioso?”.

“Oddio, questa più che esplicita mi pare proprio cattivella…”.

“Non volevo essere cattiva. Mi scusi”.

“No, neanch’io volevo… mi scusi lei”.

“Comunque la cioccolata è squisita veramente, qui”.

“Se le proponessi anche la migliore bistecca della città?”:

“Le risponderei che sono vegetariana”.

“Ah… beh, lei ci scherza, ma anche mio figlio è… no, lasciamo stare”.

“Perché? Il paragone è giusto”:

“Per niente: mio figlio è molto più giovane di eli!”.

“Non se la prenda così. Magari accetto: mangerò un’altra cosa”.

“Davvero accetta?”.

“Chissà. Sa, ho sempre molto da fare”.

“Cosa fa, se posso…”.

“Inseguo i miei problemi. Ne ho parecchi in questo momento, anzi: sempre”.

“Se potessi aiutarla…”.

“Che gentile!”.

 

Lo guarda con aria quasi di sfida, tra risentita e curiosa. Inaspettatamente solleva il bordo della manica dalla camiciaa che indossa sotto un maglione a righe colorate, esibendo alcune cicatrici sul polso.

“Allora, la prossima volta che mi portano al pronto soccorso, dico di passare prima da lei!

Si alza e gli dà un bacio sulla guancia, stampandogli la forma rossa delle sue labbra. Afferra la borsa e il giaccone, ed esce accompagnata da un enigmatico sorriso. Un’ultima frase:

“E grazie per la cioccolata”.

 

Lui resta ad osservarla mentre si allontana, perplesso. Stranamente il suo pensiero corre ad un’immagine di fantasia, anche se in forma molto realistica: vede quella stessa donna riversa sul sedile di un’auto uscita fuori strada per un brutto incidente. E’ notte piena, la strada completamente buia. Lui si ferma e la soccorre, prova a chiamare col cellulare ma inutilmente. Allora la solleva, prndendola tra le braccia per caricarla sulla propria auto.

“E magari ho addosso la mia giacca migliore, il cachemere blu. Speriamo almeno che il sangue non sia infetto. All’ospedale mi dicono che ho sbagliato: non dovevo muoverla. Arriva la polizia e mi tiene lì tutta la notte, magari crede che sia stato io a causare l’incidente. Poi, quando torno a casa, altro disastro: vai a spiegare perché son stato fuori tutta la notte, e con chi…  cos’è meglio? Fermarsi o tirare dritto?!“.

 

36.

Alessandro è nel sottoponte di periferia, con Aziz che canta una nenia del suo Paese accompagnandosi col jembeé, il grosso tamburo che permette un bello sfoggio di percussioni. Lui cerca di accompagnarlo utilizzando qualche parola che ha da poco appreso, ma più che altro ne segue la sonorità.

“…Le- lja- lé

Le- lja- lé

Na- ni- mè

Ani- jambajé…”

Un altro suono, quello a lui familiare di un motore un po’ vecchio, si distingue tra i tanti che il sovrapporsi di strade e corsie forniscono con abbondanza. Ale guarda oltre la rete che li divide recingendoli in quella strana loro zona franca: no, non si tratta di Deborah, oggi l’unico motorino di casa l’ha preso Valerio: eccolo che si ferma, toglie il casco che come sempre portava già slacciato  e scavalca la rete. Aziz smette di cantare e rimette lo strumento nella sua coloratissima custodia di stoffa, senza perdere tempo ma neanche correndo… non per vigliaccheria, ma sa che è meglio non creare tensioni, per sé e per il suo amico. Valerio è già vicino quand’egli si allontana verso il lato opposto.

 

“Aho, Ale: te la fai coi negri, adesso? Sei un bel tipo: quelli ti attaccano le pulci! Ma lo sai dove dorme la notte quello? Una volta l’ho salvato, volevano dargli fuoco, gli amici miei. Lui scappa, bella gratitudine! Che c’entra… fanno un po’ pena anche a me questi negri, poveri sorci disgraziati e neri: non c’hanno mica tutto quello che c’abbiamo noi… e che c’abbiamo, noi? Beh, quel poco che c’abbiamo! Senza qualche scappellotto, ogni tanto, qualche calcio… sennò s’allargano, si sa come sono fatti. Poi vengono a insidiarci le nostre donne. Quali donne? Qui non si batte un chiodo. Tu c’hai mia sorella, sei fortunato. Peccato che è un po’ stronza, vero?”

 

L’altro si rigira. Lo ha ascoltato, ci ha provato. Servirebbe a qualcosa replicare? O è meglio rigirarsi, e tornare a guardare le auto? Opta per la seconda.

 

“Certo che sei proprio un chiacchierone. Col negro, però… oh, non è che sei frocio? Ti piacciono i neri? E’ vero che ce l’hanno così grosso?”

 

37.

La tessera la tiene in mano esibendola, anzi: ostentandola.

 

“Cos’è questa, eh, mi dici tu cos’è? Mi sto allevando una serpe in casa? Scusa, se ho nominato ‘la serpe’: magari è di qualche specie protetta, potrei averti ferito… già sei vegetariano, anche tu, e tua madre non sa mai cosa cucinarti. E poi, credi di essere originale: lo sai che anche Hitler era vegetariano?! Insomma, dico, lo sai o no che tuo padre vende fucili da caccia: lo sai, no? Cristo santo, Alessandro, anche la tessera del WWF, adesso?!?”.

 

38.

L’auto gira da ore per il quartiere. Ora è notte, e Roberta deve sforzarsi nel guardare fuori. Accosta un gruppeto di giovani ma resta delusa. Avanti, verso il campo di calcio dove giocano una partita sul prato sintetico illumiinato quasi a giorno da potenti fari che le permettono di scorgere lo scarso pubblico ma non lei, colei che sta cercando. Non c’è. Prosegue verso uno dei bar meno squallidi, uno che retsa aperto fino a tardi. No, meglio proseguire verso… il suo volto si accende, imboccando il cavalcavia dove scorge Deborah, sola sul motorino, il volto tra le braccia appoggiate al manubrio. Ferma l’auto senza parcheggiare, si morde le labbra nervosamente, mentre l’altra solleva lo sguardo, gli occhi rossi di pianto anche se ormai asciutti, forse prosciugati. Lascia ricadere il capo sulle braccia. La madre emette un paio di lunghi sospiri, come a darsi forza.

 

“Sono ore che ti cerco. Che ci fai, qui? Dai, entra in macchina così parliamo e ti riscaldi.”

Aumenta l’intensità della ventola ma Deb non si muove, allora rinuncia anche lei alla piacevole temperatura per uscire nella fredda notte di un algido cavalcavia. Si ferma a un passo dal motorino, e prende a parlare nervosamente, veloce ma con molte pause. Tenta ogni tanto una carezza sul capo della ragazza, ma la mano resta sempre ferma a mezz’aria.

“Va bene lo hai scoperto, mi dispiace… dispiace dispiace dispiace! Solo tu non lo sapevi… Valerio non lo so, chi lo capisce? Ma a volte è comodo fare finta di nulla, e quei soldi che mi guadagno così servono a tutti! Credi davvero che potremmo andare avanti colla poca merce che riesco a piazzare in qualche boutique? Ma lo sai quanto costa un vocabolario per quella scuola dove sembra mi facciate un favore ad andare?! E tuo padre dov’è? E quei quattro parenti disgraziati che abbiamo, si fanno mai sentire, chiedono mai: ‘Roberta, Cristo, ti serve qualcosa?’”

 

La mano si allunga verso i capelli della figlia che si scosta senza guardarla. Allora si allontana di qualche metro appoggiandosi all’auto. Cambia tono, decisa.

“Io non ho proprio nulla di cui giustificarmi. Chiunque sento, le poche amiche che ho… se la spassano: almeno un amante, ce l’hanno tutte! Ieri ho anche saputo di una, che tu conosci, che se la fa con un’altra amica! Io no, io non ho nessuno: non voglio più nessuno, e per un bel pezzo… poi, quando sarete maggiorenni, indipendenti… ma non credo che ci ricascherò!  Perciò, se passo qualche mezz’ora con qualcuno, la mattina… gente mai volgare, persone sicure, per bene, che hanno il solo problema delle mogli che non li filano più, o viceversa, ma non gli passa neanche per la testa d’ impegnarsi: cercano una cosa pulita, veloce, sicura. In quella mezz’ora guadagno più che in una giornata intera a sforzarmi gli occhi e le dita. Niente coinvolgimento, niente abbracci, baci, mai… e profilattico, sempre.”

 

Ha parlato con grande fermezza e dignità, ma ora sta per crollare.

“Niente abbracci, carezze, baci… un profilattico e via… lo so che non è il massimo, ma almeno nessuno torna a casa ubriaco per gonfiarmi di botte: pagano, tutto finito, sì, tutto finito. E tra poco lo sarà davvero, perché nessuno mi vorrà più!”

 

Deborah solleva il viso e la guarda: i suoi occhi sono pieni di lacrime. E’ come un segnale, e anche Roberta sente che può, deve lasciarsi andare: raggiunge la figlia che le getta le braccia al collo, in un abbraccio forte , disperato, ma anche consolatorio, pieno d’amore. Carezza il capo della ragazza a lungo, non capendo più se per confortare lei o se stessa.

 

“Non piangere… nessuno mi ha. Non devo fingere nulla, né amore né passione. Sempre meglio che farsi sbattere dal capufficio!”

 

39.

Andrea è in pigiama, sdraiato sul divano in salone: nessun problema d’insonnia, non sua, almeno; anche se dalle finestre scivola già l’algida luce dell’alba. Un rumore alla porta: è Alessandro che rientra, con circospezione, compiendo passi vellutati sui tappeti orientali, senza far rumore. Non vede l’ora di raggiungere la propria stanza, senza ‘brutti incontri’. Ma il ‘pericolo’ è proprio alle sue spalle, sui cuscini coperti alla vista dallo schienale del sofà.

 

“Bentornato! Anzi: buongiorno! Non è certo il caso di darsi la buonanotte, a quest’ora.”

 

Alessandro non si gira, restando fermo, come impalato. Allora è Andrea che si solleva, dopo aver guardato l’orologio. Ora lo raggiunge, restandogli un poco dietro, un profilo a tre quarti.

 

“Adesso che fai: dormirai?”

Scuote il capo.

“Farai come sempre: neanche mi risponderai… ma cosa vuoi, perché? Non voglio farti prediche, anzi… solo sapere, così, come tra amici: cos’è che hai fatto, fino a quest’ora? Ho dovuto dire a tua madre che eri a letto, tre ore fa.”

 

Sta per spazientirsi, stringe un pugno poi fa un sorriso, si calma o forse si sforza per restare calmo. Solleva un paio di volte i piedi, sulle punte, una specie di massaggio rilassante, come si augura sia il profondo sospire che inala. Mette una mano sulla spalla del figlio.

 

“Ma sì, sì, lo so cos’hai fatto! Cos’altro può fare un bel ragazzo come te, di notte: te la sei spassata, no? Qualche bella gallinella? E chi è, la fortunata: giovane, oppure stagionata? A volte è anche meglio, sai? Specie alla tua età… meno rischi, impegni, storie… è alla mia, di età, che comincia la voglia di…”

 

Improvvisamente insegue un proprio pensiero, poi si rende conto di essersi troppo lasciato andare. Decide di mutare atteggiamento di fronte al perdurante silenzio di Alessandro.

 

“Cazzo, io le tento tutte: vuoi rispondermi, una buona volta?!?”

 

E finalmente Alessandro fa sentire la sua voce, ma senza girarsi verso l’altro.

 

“Ho scopato, sì, scopato scopato scopato! Cinque volte, di seguito! L’ho aperta, sfondata, riempita dappertutto, come un montone: ha detto che sono il maschio più maschio che mai l’abbia fottuta, e che ho le palle, sì!”

 

Ora si gira verso suo padre, gli occhi gonfi di lacrime che non riusciranno ad esplodere.

 

“Due palle grandi così: le palle!!!”

 

Andrea, scosso, gli dà un forte schiaffo, poi abbassa il capo, portandosi una mano tra i capelli.

 

40.

Deborah siede sul marciapiede, il viso imbronciato poggiato sui pugni. Fissa l’asfalto. Alessandro, come praticamente sempre quando è sul cavalcavia, è appoggiato alla rete del garde-rail, rivolto verso la strada sottostante. Valerio, seduto sul motorino che condivide con la sorella, è un po’ che li sta studiando.

 

“Bel clima, eh? Più vi vedo assieme, più penso quanto è bello essere fidanzati, avere qualcuno con cui stare… quanto vi divertite, come v’invidio!”

 

Nessuna replica; nessuno si muove di un millimetro.

 

“Allora ciao, e non spassatevela troppo!”

 

Avvia il motorino e si allontana ridacchiando tra sé: a volte certe conferme danno conforto! Lei non lo guarda ma alza un braccio, e poi il dito medio verso il fratello che neanche si gira ad apprezzare quel segno di comunicazione. E’ Alessandro che si volta a guardarla, indeciso. Le si avvicina, ci ripensa, poi le siede accanto. Infine si solleva di scatto, girandole le spalle.

 

“Va bene, scusa! Scusa scusa scusa!”

La guarda, cerca di prenderle le mani.

“Non succederà più, te lo giuro.”

 

Lei con uno scatto si libera da quel contatto, e prende a tempestarlo di colpi sul petto, spalle, viso che è l’unica parte che lui si protegge, come se per il resto accettasse quella ‘giusta punizione’. Accetta perfino di accasciarsi all’indietro, spalle sull’asfalto: lei ora gli è addosso bloccandogli le braccia a terra. Si fissano.

 

“Non farlo più, capito? Mai più! Se ti riprovi a mettermi le mani addosso… ringrazia Dio che c’era solo mio fratello, che è uno stronzo peggio di te. Se succedeva di fronte a qualcun altro era finita, capito? Finita!”

 

41.

Roberta , in quello spazio abbastanza esiguo che nella sua casa è salotto e cucina, legge una rivista. Nonostante la voce alta, sembra parlare più a se stessa che alla figlia impegnata a sistemare la cucina.

 

“Incredibile, guardali qui: bei ragazzi. Sembrano normali, sai? Tiravano sassi dal cavalcavia”.

 

Quelle foto sembrano prendere vita nella sua mente: più che leggerne, ne ascolta con l’immaginazione le voci ancora non formate, magari un po’ acute, stridule, il tono  insofferente e giocoso. Almeno, così lei cerca di riprodurre quelle frasi interpretandole per la figlia.

 

“Così, per gioco, per vedere cosa succede.”

“E se ci arrestano diventiamo famosi”.

“In carcere, se ci vado, scrivo un libro e me lo vendo a centomila euro, almeno!” “Io, poi, sono minorenne”.

“Anche io, per un pelo: meglio sbrigarsi a fare certe cose!”

“Tanto, tu avresti l’infermità mentale, ah ah.”

“Io guardavo, e basta.”

 

Roberta scuote il capo e torna alla propria voce.

 

“Beh, almeno una che prova a scagionarsi… senti cos’hanno il coraggio di dire, ancora: ‘Finiremo su tutti i giornali!’ Infatti, eccoli qui! E io, sto pure a leggerli!”

 

Getta il giornale quasi con rabbia, ma forse è disgusto, incredulità, più probabilmente una forte ansia.

 

“Quella donna c’è rimasta secca. Dio, puoi solo immaginare cosa vuol dire? Non come notizia sul giornale… ma la cosa reale, così, vera: quando sei lì, seduta, tranquilla nella tua auto, come questa coppia. Lui guida, magari sentite una canzone d’amore… forse vi tenete per mano.”

 

La mano di Deborah si posa improvvisamente su quella della madre. Ancora una volta è colpita da quella partecipazione al mondo degli altri, lei che è così chiusa nella propria adolescenza ombelicale.

 

“Per un impercettibile istante che solo il cervello può registrare, troppo veloce per i tuoi occhi… neanche il tempo di un gesto: il vetro s’infrange, in pezzi, come il tuo cranio, come la tua tua vita, come il cuore dei tuoi…”

Pfffhhh… Roberta soffia sul palmo della propria mano, nel cuore l’immagine di un’anima che vola via. Riflette su una sua recente lettura che raccontava la coincidenza anche etimologica delle parole ‘anima’ e ‘respiro’ in greco, così come nell’antico sanscrito e restato in tante lingue moderne: pfffhhh… un soffio, e la vita vola via: dove, e perché? Oppure non c’è né dove né perché?!?

 

42.

I cavalli si abbeverano all’antica fontana di un borgo fuori città. Il sole risplende e, seppure marzo per il calendario significa ancora inverno, la giornata è davvero primaverile. Spesso, nel nostro Paese, la primavera è tempo di elezioni, ma non è assolutamente un comizio quello che sta tenendo Andrea: accanto a lui, infatti, c’è solo Marco che come spesso succede lo ascolta con un sorrisetto scettico ma al contempo divertito sulle labbra.

 

“Il vero cattolico deve stare al centro: una volta centrosinistra, una volta centrodestra… lontano dagli estremismi ideologizzati che sognano di cambiare il mondo, per farlo come piace a loro, solo a loro! Dal centro ti sposti facile, raggiungi tutto più agevolmente: è come in città!”

“Non mi occupo di politica, te l’ho detto. Solo cavalli, e ragazze.”

“E calcio.”

“Lo guardo e basta.”

“Male: se ti piace dovresti giocarlo. E anche come ragazze… beh, stai sempre con Valeria.”

“Eh, sì, stavolta sono bello preso. Ma sei tu che mi hai chiesto di uscirci anche oggi, per Angela…”

“Beh, lo sai che è proprio carina. Più che altro m’incuriosisce, è particolare.”

“Altroché! Piena di problemi fino al collo.”

“Dovrebbero essere già qui.”

 

43.

Lanciato al galoppo sull’erba alta della vallata, il cavallo di Marco fa un figurone, specie davanti agli altri tre che ancora trottano sul vialetto. Ora anche Valeria si stacca non riuscendo a frenare il suo puledro che scalpita. Andrea un po’ di esperienza ce l’ha, ma tiene le briglie ben tirate, restando perfettamente allineato alla cavalcatura di Angela che, senza darlo troppo a veder, appare piuttosto preoccupata.

 

“Non sono brava a montare.”

“E’ facile. E terapeutico. Formativo. Le insegno io.”

“Grazie, ma non credo potrò frequentare molto questo tipo di luoghi.”

“Perché?”

“Indovini.”

“Ospite mia.”

 

Nel silenzio che questa battuta crea, i due hanno il tempo di scrutarsi negli occhi. Ora Andrea capisce che può lanciarsi al galoppo: figurato, quello delle parole, magari quello che comincia passando per il ‘tu’.

 

“Regola numero uno: il cavallo deve solo sentire sicurezza in chi è sopra. Ama essere guidato.”

“Allora sono un cavallo. Non a caso, è il mio anno nell’oroscopo cinese.”

“Perché non sei passata a trovarmi?”

“Avevo qualche brufolo: niente cioccolata...”

“Non propongo mai la stessa cosa due volte di seguito!”

“E che cosa, allora: sempre quella bistecca?”

“Beh, per una che ha problema di brufoli… per esempio una cura termale, in uno splendido hotel.”

 

44.

Il delicato suono del pianoforte risuona nell’ampiezza del salone di casa. Purtroppo non è quello, reale, che giace inutilizzato nell’ampio salone, ma la fedele riproduzione digitale del ‘concerto n° 5 pour piano et orchestre en mi bemol majeur, op. 73’, denominato: ‘L’Empereur’, appellativo che sta per Napoleone Bonaparte, stella della rivoluzione francese repubblicana così star da essere divenuto, giustappunto, l’imperatore! Pare che infatti il compositore abbia poi ripudiato quella dedica che era un inno alla libertà: giochi del Destino e della Storia, ma non è certo a questo che pensa ora Alessandro mentre è al centro del salone, in piedi, a torso nudo come nella più scatenata esibizione rock: infatti, se dapprima sottolinea ed invita gli esecutori ad un andamento lento e dolce, ora mima con gran vigore i gesti di un direttore d’orchestra nel momento più roboante (è il terzo movimento: Rondo – Allegro) ed esaltante dell’ esecuzione… la bacchetta immaginaria si trasforma in un plettro per chitarra elettrica e i movimenti, col crescendo delle note, sono qualli di un virtuosistico assolo alla Jimi Hendrix o, per restare in terre più vicine, di un Ivan Graziani o un Alberto Radius. Alla fine, secco, il gesto perentorio della bacchetta indica un punto lontano ma preciso, unico e insostituibile come tutti i luoghi della fantasia.

 

45.

“Eureeeeeee-ka

Eureeeeeee-ka

Eureeeeeee-ka”

 

Le braccia sollevate come per un’ invocazione, o la gioia della scoperta; le dita aperte come a voler contenere la maggior parte di universo possibile. Tre forti urla risuonano sul ponte, tra la nebbia della notte o forse dei fumogeni colorati che ravvivano il buio della notte illuminati dal grosso ma preciso fascio di luce dell’occhio di bue. Improvvisamente non c’è più nulla attorno a lui: solo, dietro e lontano, le scie colorate dei fari delle auto che sfrecciano. Ora non c’è più commistione, nessuna incertezza: Alessandro si muove proprio come una consumata belva del palcoscenico, scatenato cantante che scandisce veloce e sicuro ogni sillaba del suo complicato scioglilingua. La musica è quella immaginaria del jambé di Aziz che batte il tempo freneticamente, appoggiato alla balaustra, nella penombra.

 

“Task force cum iudicio

Garantire la par condicio

Big stage su floppy disc

Formattare with no risk

Molto right oppure left

In un loft è very soft

Bis dat qui cito dat

All the best è nel jet set

Air bag extra strong

All is made in Hong Kong.”

 

Accentua la forza dei passi di danza, quasi volesse sfondare l’asfalto. Accanto a lui ora c’è anche Deborah che si muove in perfetto sincrono con lui. Cantano assieme.

 

“Talk show, quiz show:

Verba volant, tiremm’innanz

Sine die, noblesse oblige

Video tape con una miss.

Tecnocity, le royalties

Nel week end c’è l’ecstasy

Una spider per fare crash

Alla luce di mille flash.

Gli altri giorni ci son le news

Schiacci il tasto ed esce il pus.”

 

Ecco che nel fascio di luce sopraggiunge Valerio, che si unisce nel canto agli altri due.

 

“All is businness purché sia cash

Riciclandosi a tutto dash

Importante è vestire Hermes

Mala tempora tutt’è stress

Maxi fax e digitale

Vae victis all’ospedale

Ipse dixit: niente male

Credit card e percentuale

Supersexy c’est plus chic

Big share della leadership”

 

Come la più consumata delle icone videomusicali Alessandro – in arte Alex – si stacca dagli altri guadagnandosi il cono di luce tutto per sé, come all’inizio.

 

Gli hot pants son un po’ blasé

Exclusive pour habitué

Contumace fa pareil

Con un classico trompe l’oeil

Lo mettiamo nella cassaforte

Che apriranno dopo la morte

Ascoltandosi un compact disc

Gli verrà qualche nuovo tic

Hic manebimus optime

Gutte cavat lapidem!”

 

Torna a sollevare le braccia ringraziando la folla oceanica che lo segue da anni osannante. L’applauso è enorme, e chiama a raccolta anche gli altri due, con sensibilità insolita per una rock star di tale grandezza. Aziz li guarda divertito, ma resta un po’ in disparte nonostante gli inviti a farsi avanti di Alex. Un elicottero atterra improvviso e li fa salire: quale altro modo per sottrarli a quella scatenata, incontenibile orda di fans?

 

46.

Gli applausi ancora risuonano nella testa di Alessandro mentre la voce di uno speaker radiofonico martella la mente di Andrea che percorre in tuta da ginnastica un’antica scalinata di una bella villa romana ricca di enormi alberi e prati ma anche elementi artistici che formano un’armonia ideale, anche se non tutti la pensano così, visto che ad esempio tutti i busti sono ormai privi di naso e molte fronti recano qualche scritta, a pennarello e talvolta a vernice, non proprio affettuosa.

 

“La scelta – suicidio guadagna terreno tra i teen agers americani: circa il trenta per cento dice di averla presa in considerazione, il quindici per cento di averci pensato seriamente, ed il sei per cento di averci provato davvero. In trenta anni il numero di suicidi è triplicato, divenendo la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali nei ragazzi tra i tredici e i diciannove anni, di ambo i sessi. Tra i motivi i problemi familiari sono al primo posto – quarantasette per cento -, seguiti dalla depressione – ventitré per cento -, e dalle incomprensioni con gli amici – ventidue per cento -. Il tasso di suicidi nell’età tra i quindici e i diciannove anni è di dieci casi ogni centomola persone.”

 

Andrea si ferma, continuando però a muovere le gambe, sul posto. Il tempo di riflettere e scacciare un timore irrazionale che, però, da quando l’ ha ascoltato in auto, gli sta dentro contro la propria volontà.

 

“Uno su diecimila, ecco cos’è: solamente un coglione, contro novemilanovecentonovantanove con più palle di lui!”

 

Riprende a correre, oltre la scalinata c’è la pineta, ci veniva a giocare da piccolo, in fondo è rassicurante.

 

47.

Raramente la rabbia abbellisce il viso, e le contrazioni che pervadono quello di Valerio ne sono la conferma. Digrigna i denti, affanna per trattenere la sua rabbia prima che esploda. Quella voce da parecchi anni lo irrita, ma è quasi normale tra genitori e figli, specie a quell’età, almeno così dicono seri seminari e riviste e volumi di psicologi accreditati; stavolta, però, è qualcosa di più.

 

“Se non hai voglia di far niente, è colpa mia? Io ce la metto tutta, e non posso farci nulla se dallo studio non hai cavato un buco!”

 

Roberta prende fiato, per modo di dire: si accende infatti uno dei soliti sigaretti. La voglia di un bicchiere di whiskey se la tiene dentro: tra poco…

 

“Trovati un lavoro, gira, datti da fare! La macchina per te è l’ultima cosa che posso permettermi adesso!”

 

Valerio si alza e capisce che deve guadagnare la porta il più presto possibile per non impelagarsi in qualche gesto o reazione di troppo.

 

“Me ne vado, sì, e stavolta non torno!”

 

Ha gli occhi umidi, ma non per questo non riesce a trovare subito la maniglia, è colpa dei nervi che gli fanno tremare le mani: si sente umiliato, perché forse è vero: sua madre ha ragione, lui non vale niente e non sa fare nulla! E anche se fosse? Non sarebbe motivo sufficiente per avercela contro il mondo intero, a cominciare proprio da quei cazzo di genitori che gli è capitato di ritrovarsi: fosse nato in una famiglia regolare, e piena di soldi, allora sì che sarebbe stato facile studiare, essere educato… e mettere subito il  culo su una bella macchina appena compiuti diciott’anni!

 

“E sei tu che non c’hai le palle: sei solo una troia, una stronzissima troia!!!”

 

Sbatte con violenza la porta dietro di sé, ma questa subito si riapre, spalancata con altrettanta veemenza da Roberta che, gettato in terra il sigaretto, mette tutto il fiato nell’inseguire suo figlio, così com’è, in vestaglia, sul pianerottolo, rivolta verso le scale che il figlio sta scendendo di corsa e con frastuono.

 

“Ma che cosa ne sai, tu? Che cazzo ne sai?!? Avevi tre anni quando tuo padre se ne è andato, e io avevo una pancia così con dentro tua sorella: ma che ne sai? Crescere due ragazzi da sola, in una cazzo di città dove non ho nessuno, nessuno!!!”

 

Alle sue urla si uniscono un paio di voci a intimare il silenzio, senza troppi riguardi: giusto quello che le serviva per scaricare un altro po’ di adrenalina.

 

“Ma che volete, voi? Vicini di merda di cui non so neanche i nomi! Andate tutti al diavolo, tutti!”

 

Sbam! La porta sbatte, ma è l’ultimo di quei forti rumori disturbanti, almeno per il momento.

 

48.

Tutt’altra atmosfera all’Hotel delle Terme di una bella località non troppo distante dalla capitale. Angela, nuda ma al riparo da sguardi indiscreti dietro la balaustra e la riservatezza dell’ambiente ovattato, rimira il mare che si apre, vicino, quasi tangibile, dispensando il suo salutare profumo e carezzando le orecchie col ritmo delle onde.

 

“E’ bellissimo.”

“Voglio darti sempre il meglio. Per quanto potrò”

 

Lui è appoggiato allo stipite della finestra, rimirandola. Lei gli si accosta, e pone il capo sul suo petto.

 

Mezz’ora dopo sono ancora abbracciati, soli, in una piscina di media grandezza, godendo i benefici dell’acqua e dei suoi ingredienti. Il dolce e ripetitivo suono di un mantra che risuona, è in splendida sintonia coi loro sentimenti.

 

49.

Alessandro e Deborah camminano su un ponte attraversato da molte macchine. E’ in centro, un particolare miscuglio di stili: antiche ringhiere in ferro, asfalto, rudere di un’altra struttura in marmo che quasi sfiora la nuova, e sullo sfondo l’isola Tiberina; sotto, il fiume. Forse lei vorrebbe godere quella bella visuale, ma appare un po’intimorita, ed anche seccata, impegnata com’è a inseguire lui che va avanti, veloce e nervoso.

 

“Invece ce l’ho, e ve lo dimostrerò: a te, mio padre, i professori… darò un calcio a questo sporco mondo, ce la farò, io!

“Certo, ce la farai… a fare cosa?

“Non lo so, so che ce la farò: sfonderò!”

 

Ale si ferma dopo aver accelerato il passo (ma neanche troppo: che si fermassero gli altri, anzi loro, le macchine!) per raggiungere il marciapiede opposto. Anche lei ha rischiato quell’attraversamento poco prudente, ed ora è lì che lo fissa. Sì, forse lei può capirlo, dargli qualche conforto.

 

“Perché ho le palle, io!”

 

L’abusato tema familiare è difficile da smaltire, ma ecco che lei gli tende le mani, e lui le afferra.

 

“Certo che ce l’hai: arriverai in alto, tu.”

 

Troppo rassicurante, dev’esserci sotto qualche trucco! Lui stacca bruscamente le mani, rabbuiandosi.

 

“Cosa ne sai?”

 

Ora però è lei a chiudersi come un riccio, delusa e offesa da quel gesto brusco e dal tono di voce. E lei sa bene dove colpirlo, quando vuole.

 

“Perché c’hai i soldi, tu.”

Subito pensa di essere andata un po’ oltre, allora gli si accosta ancora di più, abbracciandolo: da fiera a cucciolo, è bello giocare tanti ruoli, specie se viene tutto spontaneo, senza calcoli… ancora si può, forse, a quindici anni.

“Piuttosto tu, quando sarai arrivato, ci penserai ancora, a me?”

 

Alessandro le dà un delicato bacio sulle labbra, le cinge le spalle riprendendo il cammino. Scendono le scale verso il lungofiume.

 

“Dai…”

“Mi lascerai. Già adesso ti vergogni di me.”

“Che dici?!”

“Mi hai invitato mai da te, voglio dire: coi tuoi? Se c’incontrassero insieme, ti vergogneresti di me”

“Smettila! Non siamo Montecchi e Capuleti!”

“E chi sarebbero? Amici di papà?”

Lui si blocca, osservandola per qualche istante; poi scuote il capo e sorride.

 

“Macché, sono due stilisti, tipo ‘Dolce e Gabbana’, li conosci?

“Certo che conosco ‘Dolce e Gabbana’, per chi mi prendi? Anche se non ho i soldi per comprarmeli.”

Nei suoi occhi l’immagine di qualche tempo fa: lei stessa riflessa sulla vetrina di un negozio che presenta tanti capi di quel marchio, e i suoi occhi famelici che si accigliano nello scorgere le targhette dei prezzi. Ma ora non la offende la sproporzione assurda di quelle cifre, quanto la sua consapevolezza di non poterle raggiungere. Allora meglio ferire.

“Tu non arriverai da nessuna parte, perché proprio non ce l’hai, le palle! E sarò io a lasciarti… quando sarò prima ballerina!”

“Per diventare ballerina bisogna studiare anni”.

“Lo dici tu! Perché non guardi la televisione.”

 

Inutile arrabbiarsi, meglio un sorriso. D’altronde lui la tv non la vede, ma da quel poco che ne intuisce, su questo tema lei deve aver proprio ragione! Perciò si gira e le carezza il viso, ha voglia di far subito pace, ci sono delle panchine invitanti lì a fianco e la luce del giorno sta scomparendo, meglio farsi un po’ di coccole, intime, piuttosto che litigare. Non riesce, comunque, a celare l’ironia delle sue parole.

 

“Beh, verrò in teatro ad applaudirti.”

“Teatro? Figurati, per farmi vedere da queio quattro gatti!”

Di nuovo la sua fantasia vola tra modelle, dive e vallette, tutte col suo volto.

“Farò televisione, io; o cinema, e tanti calendari.”

Ma uno strano lampo accende per un attimo il suo sguardo: guarda il fiume, concentrata, parla come a se stessa.

“O forse no. Magari resteremo insieme, avremo dei figli, un lavoro normale… che ne so? Ho quindici anni, io.”

 

Il fiume continua a scorrere, senza dare risposta; ma la domanda vive, sospesa nell’aria.

 

50.

Ora i due son stretti stretti l’uno all’altro, in uno di quelli che potremmo definire: i bei momenti.

 

“Deborah, Deborah… perché non tentiamo? Una vita diversa, che nessuno ha mai vissuto. Io non voglio la vita di mio padre, e di nessun altro. E tu, tu non puoi voler vivere la vitra di tua madre!

 

Fine del bel momento: Deborah si stacca, con rabbia.

 

“Lascia stare mia madre! Che c’entrano sempre i genitori?!”

 

51.

E’ venerdì. E come tanti altri venerdì mattina in casa di Roberta, lei sta accompagnando alla porta Andrea che, sempre allo stesso punto, davanti al piccolo specchio dell’ingresso, si ferma per rimirarsi mentre con discrezione appogga sul tavolinetto le banconote dovute. Stavolta, però, indugia: evidentemente è un venerdì un po’ diverso; riflette, poi si volta a guardarla.

 

“Probabilmente, è l’ultima volta che vengo qui.”

“L’avevo intuito, è un po’ che non ti facevi vivo.”

“Beh, son mancato due settimane…”

“Comunque sia, va bene; fa’ come vuoi.”

“Certo che faccio come voglio: è una vita che nessuno mi dice cosa devo fare!”

“L’ho capito da un pezzo, che sei uno colle palle!”

“Prendi in giro? Guarda che se oggi è andata com’è andata, non c’entrano le palle… e nemmeno tu. Anzi, è stata proprio la riprova che cercavo!”

Si accorge che ha ancora il portasoldi in mano, e aggiunge due banconote  prima di rimettero in tasca. Estrae invece il cellulare, riattivandolo. Poi la guarda attraverso lo specchio, come incorniciandola, forse a fissarne il ricordo. Lei se ne accorge e gli sorride, lui guarda l’orologio e si gira quasi imbarazzato.

“Senti, ti va di ascoltarmi? Visto che non l’abbiamo fatto…”

“Certo, perché no? E senza bisogno di alcuna giustificazione: Sediamo in salone… insomma, quello che è.”

“E’ un bel divano, anche comodo!”

Ora prende a parlare deciso, colmo di una voglia repressa di comunicare a qualcuno la sua emozione.

“Sono innamorato.”

Lo sguardo di lei si accende, quasi trasalendo: sa che non sono per lei, quelle parole… eppure, per un attimo: che effetto le farebbero? Non è un po’ troppo tempoche non si sente rivolgere nulla di simile? Ma da chi le vorrebbe sentire? Incontra solo gente indaffarata, stressata, che corre verso chissà dove… e per lo più le appaiono volgari, a partire dai suoi’fedeli’ che anche se vengono da bei quartieri con auto costose, poco altro avrebbero da offrire. La vogliono scopare, ma a chi interessa un rapporto profondo e duraturo con una donna della sua età con due figli a carico? Ma la verità è che non interesserebbero a lei: meglio ascoltare le storie degli altri! Poi, chissà, tra qualche anno, sistemati i figli…

“E’ già una storia, ormai. Dura da un po’… non so bene perché… lei mi ascolta. Capisci? Mi ascolta! Io le parlo, e lei sta lì, mi ascolta. Cerca di seguire il mio discorso, quello che dico e quello che provo: tenta di capirmi.”

“E’ così difficile?”

“Purtroppo sì. Me ne sto convincendo, è da un po’ che ci rifletto.”
“E capita mai, il contrario?”

“Cioè?”

“Tu che ascolti lei.”

“Certo, la ascolto, sempre… ogni desiderio, ognuna delle sue piccole, tante insicurezze, ogni problema… poi le dico qual è la soluzione migliore. Non è presunzione, è lei che è troppo giovane, è come mio figlio. Lui, però, non ascolta: parlo, parlo, e lui niente. Mia moglie, invece, si affretta a darmi sempre ragione, ma solo per farmi stare zitto prima. Angela no, ha fiducia in me…”

Si guardano. Squilla il cellulare di Andrea, una volta sola. Andrea controlla il numero che compare sul display e il suo sguardo s’illumina.

“Vedi? E’ lei. Mi fa uno squillo, e io la richiamo.”

 

52.

Sotto il cavalcavia, nella zona chiusa dalla rete, tra due corsie di auto che sfrecciano mentre sopra altre ne passano dritte o imboccano i diversi svincoli, Valerio si muove in maniera esagitata, al limite del ridicolo, in gran parte volontaria espressione del suo carattere. Da quando non rientra a casa, poi, è piuttosto su di giri.

 

“Adesso come fai, scusa, cosa gli racconti a tuo padre? Lui ti dà un assegno che io neanche me lo sogno, ti regala un’auto per la maturità, un’utilitaria, certo, mica una Ferrari… e tu, che sei veramente maturo, che fai?”

 

I colpetti che si dà sulla fronte con le dita descrivono bene il suo attuale giudizio su quello strano amico. Nella sua testa passano le immagini che descrive: deformate, esasperate, esagerate, dove i soldi sono milioni di banconote che fluttuano sulla banca, la pizzeria , la strada…

 

“Vai in banca, riesci con un bel pacco di soldi, incontri quel pezzente e glieli regali! Neanche una pizza con gli amici, un regalo a Deborah… “

Cercando di scuoterlo , Valerio prende per le spalle l’altro che resta imperturbabile.

“Alex, che c’hai? Che ti frulla sempre nel cervello, stai bene, sul serio, ti senti bene?”

Alessandro si allontana lungo il muro ricoperto da graffiti.

“Oh, ma non è che tu, veramente, col negro…”

L’altro si gira a questa battuta già ascoltata: ora il suo sguardo non è amichevole. Sembrano sfidarsi.

“No, perché tra l’altro stai pure con mia sorella!”

 

53.

“Temevo che mi venisse un figlio così…”,

e Andrea solleva il braccio destro, in pura iconografia fascista;

“poi adesso me lo ritrovo così!”.

Per il secondo ‘così’ passa all’esemplificazione del ‘compagno’, alzando l’arto opposto ma serrando il pugno chiuso.

 

In piedi sulla soglia del piccolo ufficio del negozio di articoli religiosi, Alessandro rimane a testa bassa, senza mai guardarlo.

 

“Dico: proprio ora che il comunismo nemmeno esiste più?! Ai miei tempi va bene contestavo anch’io mio padre, specie per il suo commercio, cercavo sempre di nasconderlo, in classe mi prendevano in giro chiamandomi: il pretino… così son diventato comunista anch’io, sennò me le davano, specie dopo, quel poco che l’ho frequentata, quella maledetta università piena di… comunisti! Ma comunisti di allora, chi non lo era negli anni settanta, era anche divertente, si voleva tutti cambiare qualcosa… e qualcosa è cambiato: che ora, grazie a Dio, i comunisti non esistono più! Tranne uno: eccolo là, signori, mio figlio, l’ultimo comunista!”

 

E’ una convocazione in piena regola, Alessandro stavolta non può fare a meno di ascoltare, la serranda è abbassata, nessuno può disturbarli. D’altronde, tutto prende ora un tono molto serio, Andrea prende a parlare un po’ tra i denti, non riesce più a coprire la propria rabbia, mentre gli occhi del figlio rivolti al pavimento non lasciano comprendere se sia dispiaciuto, arrabbiato, offeso… forse, un misto di sentimenti contrastanti.

 

“E non cercare di rabbonirmi coi valori cristiani, eh? Non provarci nemmeno! Lo so che il vero cristiano deve ‘dare’; ma nessuno dei quattro evangeli dice che bisogna dare via l’assegno necessario a ritirare un’automobile. Fortuna, che era solo l’anticipo! Insomma: ‘Date a Cesare quel che è di Cesare’, è scritto. Allora, se il padre dà al figlio un assegno, questi deve solo leggere l’intestazione, e se c’è scritto: ‘Auto Best’ lo va a dare a ‘Auto Best’!”

Si blocca, riflette.

“Colpa mia, mi fido troppo e il nome non l’ho scritto: ‘Mettono loro il timbro’, ho pensato: per forza, è normale, così succede di solito! Come potevo immaginare che tu andavi a dare tutto a quel… ma poi, chi è ‘sto negro del cazzo?!?”

Scruta Alessandro con attenzione, cercandovi un segnale che non arriva. Scrolla il capo e parla come tra sé.

“Forse, ha proprio ragione la zia Irene.”

 

54.

Roberta sta controllando alcune carte: sono bollette, l’estratto bancario, qualche fattura. Appare un po’ preoccupata e il suono del campanello di casa serve se non altro a distoglierla. Ma non aspetta nessuno, quindi è meglio controllare dallo spioncino. Dapprima sorpresa, presto  sorride, con espressione tra divertita e scettica. Apre: davanti a lei c’è Aziz, immobile. Indossa un completo nocciola su una candida camicia bianca; perfettamente sbarbato, deve aver messo una buona dose di profumo.

 

“Non ci posso credere!”

L’altro non si muove.

“Beh, ora ti ho visto, e allora?”

 

Solleva un braccio che aveva prudentemente nascosto dietro la schiena, porgendole un mazzo di gerbere.

 

“Che… hai cambiato genere: dalla maglieria ai fiori? No? Ho capito: sono per me?”

Come sempre, Aziz non parla, al che è lei a dover proseguire, anche se non sa se quello che dice può essere interpretato come accogliente, o apparire una presa in giro; comunque, sempre meglio essere naturali, sinceri.

“Stai bene, vestito così… ma secondo me stavi meglio prima; non so, che ti è successo: hai fatto i soldi? Beh, anche se hai fatto i soldi non è che devi vestirti come… uno di noi, voglio dire: un occidentale. Tu hai la tua cultura, io non ne so molto, ma… sicuramente va bene anche quella!”

 

Aziz estrae dalla tasca una piccola quantità di banconote, porgendogliele. Lei le guarda perplessa, indecisa su come interpretare il gesto. Qualunque sia il significato, decide di optare per una sua versione.

 

“No, no, che fai? Guarda che se anche qualche volta ho comprato cose in più, che magari non mi servivano… o ti ho dato di più… non vuol dire, se l’ho fatto è perché mi andava, non devi restituirmi nulla!”

 

E’ stata convincente, lui rimette i soldi in tasca. Educato e mai insistente, come sempre.

 

“Senti… vuoi un caffè?”

 

Finalmente la voce di Aziz::

“Grazie.”

Entra in casa, col suo passo lento e un po’ felpato. Lei guarda i fiori e comincia a cercare un vaso: è tanto che non le era più servito!

 

55.

Mangiando un buon cono gelato, Deborah rimira il fiume da un antico ponte.

 

“Il Tevere da qui è veramente bello.”

“Da qui; se vai giù è pieno di merda.”

 

Sbottano a ridere all’unisono. Una volta tanto la battuta feroce di Ale ha un effetto positivo, rallegrante: l’unico che potrebbe offendersi è proprio il fiume, ma nei secoli ha visto e sentito e subito ben altro.

 

“Comunque, merda o no, è sempre meglio delle auto che guardi di solito!”

 

Un tuono nel caldo cielo estivo, preludio di un improvviso scroscio di pioggia che coglie tutti impreparati.

 

“Per una volta che stiamo in centro, così bene!”

“Beh, questo non è proprio in centro; e poi, si può stare bene lo stesso!”

 

La prende per mano trascinandola verso un’antica arcata che sovrasta una serie di ruderi romani: può essere un buon rifugio dall’acqua, che anzi terrà per qualche tempo lontano ogni possibile controllo di guardiani o vigili, visto che hanno appena scavalcato una bassa recinzione, sedendo su un grosso capitello perfettamente asciutto. Lei pensa che è tutto così facile, e bello, appena lui si apre un po’, è positivo, e questo stranamente sta succedendo da qualche giorno, proprio dopo quella sua grossa ‘mattata’ dell’assegno, chissà, forse quell’atto palese e indifendibile di ribellione, follia, generosità: cosa? E’ sttao come un tappo che ha aperto nuovi spazi… è il momento di aprirsi, proporre… ma cosa?

 

“Sei un bel ragazzo… no, poi ti monti la testa: carino! Ok, bello, sennò t’offendi! Vai bene a scuola, hai pure i soldi: perché non cerchi di sfondare?”

 

Lo carezza, quello spazio sembra proprio fatto apposta per isolare, al riparo da sguardi indiscreti, specie con quella pioggia fitta fitta che sembra uno schermo tra loro e il resto del mondo.

 

“Devi andare in televisione: fai come quel critico tanto bello, che ha sentito una proff leggere una poesia di merda, le ha detto in faccia che è una stronza, e il giorno dopo mia madre dice: ‘Non sai ieri cos’hai perso in televisione!’”

 

Rivede sua madre che getta fuori il fumo del suo ennesimo sigaretto, mentre accarezza i capelli del suo ragazzo prendendo ad armeggiare coi bottoni dei pantaloni. Lui la imita sbottonandole la camicetta e prendendo a giocare coi suoi capezzoli.

 

“Famoso, subito, dopo che per anni si era fatto il culo a studiare; lo pagano milioni solo per andare a cena dalla gente ricca, scrive, torna in tv quando vuole…”

 

Alessandro si blocca, evidentemente seccato dalla lunghezza dell’argomentazione: le parole, son molto spesso superflue, ma sembra essere doveroso sopportarle. Almeno, però, che siano brevi. Stavolta decide comunque di assecondarle. Le sorride, accarezzandole i capelli: accompagna il movimento di lei che si china verso il suo ventre. Si accende, allargando le braccia come chi si accorge di aver in mano la scoperta del secolo.

 

“Grande idea!”

Si vede, lì, seduto al talk show di maggior successo… di scatto si alza mentre gli altri lo osservano divertiti e sorpresi. Si cala di botto i pantaloni mostrando ll meglio di sé al pubblico.

“In diretta, pensarti fino a farmelo diventare duro, e quando m’inquadrano tirarlo fuori di colpo: voilà, successo assicurato!”

Sente infatti il boato di meraviglia del pubblico in sala, poi un attimo di silenzio, il primo timido applauso seguito vieppiù da altri fino a divenire una srosciante, entusiasa ovazione: la prima volta in televisione in prima serata: un evento storico, scriveranno fintamente indignati molti cronisti, una pietra miliare, una notizia da prima pagina, argomento su cui dibattere in nuovi talk show, in apposite commissioni parlamentari sul rischio della diretta! Quanto è ricca la vita ai nostri giorni!

 

56.

Valerio fuma nervosamente una sigaretta appoggiato alla colonna di cememto scrostato  di un palazzo di fronte al suo. Osserva le finestre di casa, pensieroso.Da una settimana non rientra, ma ora il suo ospite non lo vuole più, e anche i pochi soldi che gli dava la madre fanno sentire la loro mancanza, e poi, soprattutto, hai voglia a fare il duro, l’indipendenza non è così facile… con Deborah si è incontrato, un paio di pomeriggi. Sa sempre dove trovarla, più o meno, tra scuola e cavalcavia; almeno, sarà servito a tranquillizzare la madre che, sia quel che sia ai suoi occhi… e al suo giudizio… e se avesse ragione, lei, o almeno fosse giustificabile? No, non può perdonarla, o forse sì, se almeno gli comprasse la macchina per farsi perdonare, oppure, sì, va bene, si troverà un lavoro, lui, diverrà il capofamiglia, ormai è maggiorenne! Pensieri confusi, mentre la sigaretta si consuma sempre più in fretta, e gli occhi restano fissi su quelle finestre… cosa? No, non è possibile! Non è vero! Getta via la sigaretta e si appoggia con tutto il peso alla colonna.

Non sa quanti secondi, o minuti, è rimasto così, in un vorticare di pensieri che lo ha stordito. Ora lo vede uscire dal portone di casa, sì, è prorpio lì di fronte a lui, tutto in tiro, vestito proprio come uno di noi, no, nemmeno, perché mica tutti hanno i soldi per comperarsi un abito di quel colore (vanno a colore i prezzi degli abiti?). Eccolo, sorride pure, quella faccia di ebano, l’aria soddisfatta, ma chi si crede di essere? In casa mia, mia madre! Fa presto a riprendersi Valerio, mormorando a denti stretti un

“Porcaputtana!”

Aziz si avvia sul marciapiedi, e sta già per girare l’angolo. Quando il ragazzo lo raggiunge, leggermente affannato per lo scatto o più probabilmente per l’emozione, ha solo un istante d’indecisione sul da farsi, poi con una specie di grugnito gli afferra un braccio strattonandolo per farlo girare, già pronto col pugno destro caricato per colpirlo. Aziz fa uno scarto e si prepara a rispondere, gli occhi sorpresi e inqieti. Anche lo sguardo di Valerio è adesso quasi più di incredulità che di odio. Forse per questo, dopo alcuni istanti, tutto resta sospeso: quasi contemporaneamente i due abbassano la guardia, e si allontanano da quella casa, in direzioni diverse.

 

57.

San Michele Arcangelo è ancora lì a minacciare il diavolo che schiaccia col piede, la Madonna sfoggia uno dei suoi incantevoli sorrisi benevoli, mentre la faccia di Padre Pio è piuttosto accigliata: chissà, a lui così fresco di nomina non va troppo giù di essere finito in quella parte di negozio: ‘L’angolo delle occasioni’, così recita un cartello piantato su un sostegno in metallo. Non dipende tanto dalla qualità del soggetto, né dalla sua fattura: c’è ogni tanto il boom di qualche personalità, con ordinativi enormi che un negoziante fa senza riuscire poi a smaltire. Commercio, si chiama, e Andrea è il più seccato lì dentro, per non aver privilegiato gli evergreen, quelli che non sono soggetti a eventi, annualità, periodi storici. Oggi però, il motivo del malumore è un altro: una tensione interna che non deve lasciar trapelare, mostrandosi deciso e convincente come non mai con Alessandro.

 

“D’ora in poi dovrai curarti di lei: piantarla, di fare il ragazzino! Può farti anche bene. D’altronde, ora sei maggiorenne, secondo la legge. Io continuerò a starvi vicino, ma dovrò pensare anche ad Angela. Gli amici mi consigliano di fare come loro, tenermi l’amante e la moglie. Io no, non mi piace vivere di menzogne e sotterfugi. Questione di palle. Grazie a Dio, io ce l’ho.”

 

“Questa l’ho già sentita”,

potrebbe rispondere Alessandro, ma anche lui ha poca voglia di scherzare. Fissa lo sguardo su una riproduzione a bassorilievo del San Giorgio del Carpaccio: l’attimo in cui infilza il drago proteso verso di lui a formare un mistico triangolo simbolico, mentre la principessa osserva da lontano, immersa in un paesaggio fiabesco, l’atto finale della propria liberazione. San Giorgio c’è riuscito, almeno ad una cosa importante per qualcuno è riuscita a farla. Ma il dopo: come avrà reagito, poi, la liberata?

 

“Angela, anche lei così giovane, fragile…”

 

Ora Ale osserva una Madonna, e la vede col viso che immagina possa essere quello di Angela,addirittura ne sente la voce anche se quelle parole sono pronunciate dal padre che prosegue il discorso.

 

“’Vorrei essere un’altra mamma, per lui’…. Le ho risposto che una mamma già ce l’hai: dolce, bella, in gamba! Forse, è vero, ti è mancato un fratello… ‘Ecco, giusto: potrei essere una sorella’”.

Ora il suo sguardo si rifà serio, come tutte le volte in cui ritiene di essersi troppo lasciato andare.

“Cerca di stare vicno, a tua madre, è una donna molto sensibile. Specie i primi tempi. Poi, si rifarà anche lei una sua vita, è in gemba… ma all’inizio sarà dura, per tutti: cosa darei per potermi sdoppiare!”

 

Finalmente Alessandro prende la parola.

 

“Fai come quello là”

“Chi?”

“Lui!”

Indica al padre un quadro che riproduce un classico della iconografia cattolica.

“Padre, figlio, e spirito santo: la Trinità!”

Andrea non ride; scuote la testa stizzito.

“Non scherzare su certi argomenti!”

 

58.

Giornata afosa. Alessandro appoggiato alla rete guarda l’asfalto che sta liquefacendosi sotto i suoi piedi; dietro di lui Valerio, che appare teso mentre fuma una sigaretta.

 

“Allora, lo sai già? Certo che lo sai. Ma non è colpa tua, certo che no! Non devi pensare che se non gli davi quei soldi, insomma, se non lo ripulivi… però sì, dava nell’occhio. Specie per chi già lo conosceva.”

 

Eccolo che parte per uno dei suoi films immaginari, raffigurandosi una sequela d’immagini di uomini di colore: attori, pugili, catanti, poilitici…

 

“Perché si vedono dei negri messi bene, ma sono attori, cantanti, qualcuno fa il pugile: però è televisione, o cinema, ma così in mezzo a noi… magari nel tuo quartiere, va bene: ci dovrà pure stare qualche ambasciatore, e un branco di servitori…  invece, qui, è difficile anche per noi, e non vogliamo provocazioni!”

 

Quella che gli appare adesso è l’immagine più temuta e fastidiosa, e la descrive come l’avesse davanti.

 

“Se ne stava lì, su una panchina del parco, a parlare con una di noi! Non facevano niente, ancora, lo so: però qualcuno li aveva visti darsi un bacio, Cristo santo. Quelle gengive, quella lingua tutta rosa che hanno: pensa se dovessi baciare una, e poi sapere che il giorno prima ha preso in bocca la lingua di una di loro, o magari qualcos’altro: che schifo!!!”

 

Ora, però, l’immagine che ha in testa comincia a viaggiare su un binario che diverge dal suo racconto: è quella notturna e confusa del volto di Aziz che sanguina, pestato colpo dopo colpo da un imprecisato numero di pugni; l’ultimo fotogramma è il più terribile, quello di un bastone che colpisce il capo dell’uomo  già riverso sull’asfalto.

 

“E non ti offendere, che tu mica sei negro. Scusa, lo so che è tuo amico, io non ce l’ho coi negri, dico solo che hanno un po’ esagerato pure loro: tutti qui, poi in Burundi chi ci rimane?!”

 

Accenna un sorriso ad Alessandro, il cui volto immobile non accenna certo ad assecondarlo. Gira comunque gli occhi, fissandolo senza espressione, finché Valerio improvvisamente lo abbraccia, di slancio, parlandogli con voce sincera.

 

“Vedrai che se la cava. Ce la farà. Hanno la pelle dura, quelli.”

 

59.

Il fumo del solito sigaretto vola più alto e più in fretta stasera: Roberta fuma nervosamente, in piedi, mentre Deborah siede sul divano.

 

“Vi ho dato fiducia, ed eccomi qua: Valerio non torna da una settimana, tu da qualche tempo sei sempre in giro e non mi racconti nulla… poi, un bel giorno, arriva la polizia a chiederti cosa fai, dove vai, chi incontri: ma chi è quest’Alessandro?”

 

Sarebbe meglio non informarsi su Alessandro proprio adesso, che è in piedi, su un autobus di cui nemmeno ha guardato il numero, attraversando strade di periferia, scrutando le poche persone sedute: una vecchia coi pacchi della spesa, una madre con il figlio in braccio, due uomini probabilmente polacchi.

 

“E come mai si è messo a regalar soldi a quel povero disgraziato? Lo conoscevi, tu, Aziz?”

“Perché chiedi queste cose a me, adesso? Come le passi, tu, le tue giornate? I  poliziotti  hanno interrogato anche te, no? E Valerio…”

 

Anche nella sua mente si forma ora un’immagine analoga a quella di suo fratello quando parlava con Alessandro: la differenza è che lei la ricostruisce per intuito, ma Valerio no, lui c’era, lì, in carne e ossa, protagonista.

 

“Valerio, sì, stava con gli altri quando lo hanno massacrato di botte, lo sanno tutti che era con loro, ma io non l’ho detto!” Vorrebbe fermarsi di fronte alle lacrime che cominciano a riempire gli occhi di sua madre, ma non vuole, forse non può, perché allora sgorgherebbero le sue. “E tu, ma’, cosa gli hai detto tu, a loro?”

 

 

60.

E’ come se la voce di Deborah risuonasse nel cervello di Alessandro che ancora vaga sullo stesso autobus. Risente e rivede lei, e Aziz, e Valerio, e suo padre. Ogni tanto perfino sua madre.

Ora riascolta invece il proprio ultimo dialogo con Valerio.

“Io l’ho capito chi è il male.”

“E chi è?”

“Tu”

Questo sua affermazione la ripete ad alta voce, di fronte a un passeggero che lo guarda stupito. Ma la risposta che sente ha la voce di Valerio che replica con domande ai suoi nomi e pronomi.

“Io?”

“E io.”

“Tu?”

Alessandro tocca da dietro la mano di una ragazza che ha i capelli dello stesso colore di Deborah.

“E Deborah.”

La ragazza si gira osservandolo stupita: no, non è Deborah ma comunque una che, cogliendone l’espressione dolente, gli sorride perdonando quel gesto avventato. Ma ancora nella mente torna il suono della voce di Valerio.

“Deborah? Perché, che c’entra Deborah?”

 

61.

Valerio, poco prima, l’aveva seguito, pochi passo dietro, gli chiedeva di fermarsi, parlare, ma Alessandro non voleva saperne, dritto verso… senza minimamente sapere verso dove.

“No, Ale, aspetta: perché saremmo noi, il male? Che significa? Se hai qualcosa da dirmi, dillo: da uomo a uomo, con due palle così!”

Prova a fermare l’altro per un braccio, ma questi con uno scarto se lo scrolla di dosso.

“Dove vai? Non puoi dire sempre certe cose, contro tutti e tutto, e poi startene lì zitto, e andartene!”

Ora di sua volontà Alessandro decide di fermarsi. Guarda Valerio in faccia.

“Vuoi sapere i nomi? Tutti i nomi, tutti i veri colpevoli?”

Sorride amaro.

“Apri l’elenco del telefono, leggilo tutto, nomi e cognomi, a voce alta. Ma non basta, ci sono i numeri riservati, quelli che non compaiono, e i loro familiari. Allora vai all’anagrafe, e fatti dare tutti i nomi, tutti: colpevoli, tutti, fino all’ultimo!”

Ora è deciso a proseguire, Alessandro. Si affretta verso un autobus che passa:

raggiunge la fermata e sale, mentre Valerio gli urla dietro.

“Facile cavarsela così. Tu sei matto, matto qui!”

Si batte più volte sulla fronte coll’indice che poi punta verso l’altro ormai dietro il vetro della vettura.

“Oppure no, sai quella parola… politica: ecco, sei un qualunquista!”

 

62.
“Basta, basta, non ne posso più... sto invecchiando, invecchio: ieri uno mi ha detto che sono troppo vecchia, capisci? Lo vedevo da anni, due volte al mese. Poi ieri, ero già sul letto... 'Le tue cosce.' 'Le mie cosce, cosa?' 'Hai la cellulite.' 'Io non ho cellulite.' 'Beh, comunque hai le smagliature: qui, qui, e qui...' E mi tocca, indicandomi i punti: brutto porco schifoso, non c'ho visto più! Subito un ceffone, poi l'ho graffiato, gli ho sputato in faccia, l'ho"... sente i propri occhi bagnarsi, un fenomeno che le sta capitando troppo spesso ultimamente. "Macché, a te non posso mentire, che gusto ci sarebbe, siamo identiche, noi due: non ho fatto niente, proprio niente... ho pianto. Lui ha visto le mie lacrime e ha detto: 'Se devo pure spendere i soldi per vedere una donna piangere, allora resto a casa e guardo mia moglie.' Troppo stronzo: non ho più avuto nemmeno la forza di piangere."

 

E' bello, o almeno consolante, avere qualcuno con cui condividere i momenti più bui: vale anche in questo caso, quando si dialoga col proprio specchio? Forse no, oppure sì: sì, infatti dalla smorfia di dolore Roberta passa ad una grande risata liberatoria, rivede quell’uomo, più vecchio di Andrea, che in fondo è un bell’uomo, aitante e gentile, al di là del suo fare troppo deciso… rivede anche le altre poche, pochissime persone con cui intrattiene quel tipo di rapporti, che poi è il solo che ha per il momento, e decide che vuole smettere… no, non di vedere loro, ma intanto di bere e fumare, perché forse è vero, le smagliature, e con l’età che avanza… poi, cesseranno anche quei rapporti: sì, appena anche Deborah avrà diciotto anni, che andassero a lavorare, lei e suo fratello, no? Che c’è di male?!

 

63.

Un’altra donna col volto provato, ma come ormai assuefatto: un bel viso di circa cinquant’anni fronteggia quello del marito, mangiando un gelato a un tavolo all’aperto di un piacevole bar sul laghetto dell’EUR, senza guardarlo mai in viso.

 

“Alessandro adesso non mi parla più; ma già da un pezzo non lo faceva. Tu ora mi detesti, è scritto in faccia: ma perché, cosa ti ho tolto, quale gioia ti dava avermi in casa, non ci odiavamo già? Forse no, ma quell’indifferenza, quel perpetuo senso di fastidio… non è peggio di ogni possibilità?!”

Ha alzato un po’ la voce, ma si riprende.

“Non ho nulla qui, a trattenermi: è morta pure la zia Irene, l’unica alla quale fossi veramente affezionato, a parte te e Alessandro. Ma quanti anni sono che facciamo l’amore una volta ogni… e non ho cominciato io… tu, i tuoi continui mal di testa, la stanchezza, sempre qualcosa!  Sei arrivata a dirmi: ‘No, sennò devo rialzarmi per lavarmi’. Ti faccio schifo?!”

L’ha quasi urlata, questa domanda, che poi pone agli altri avventori, un paio di coppie ai tavoli vicini, girandosi sulla sedia.

“Faccio schifo, eh?”

Torna a un tono più pacato, ma certo non più conciliante.

“Vi faccio schifo, ma se vado via sono un mascalzone: ipocrisia! Ma io, ho aperto gli occhi.”

 

Finalmente lei lo guarda, per un attimo, dritto negli occhi, prima di alzarsi e andarsene.

“Sì, appena una ragazzina ti ha aperto le gambe!”

Lui la segue, ma solo con lo sguardo, e con la voce che le urla:

“E allora voglio fare il ribelle anch’io, sì: a cinquant’anni suonati, vado a combattere coi canguri!”

 

In realtà non sa bene cosa intenda dire, ma più delle parole conta il gesto che le accompagna: di getto si sfila la fede e – wham! – la getta nel lago. Dove, chissà, magari fra mille anni qualche tribù di nani, o marziani, la troverà, dando l’avvio ad una nuova saga… una nuova avventura su un anello fatato: ma già ora, nella mente di Andrea, c’è lo spazio per grandi sogni, una nuova vita da vivere!

 

64.

“Ce n’è che diventan sergenti

o mercanti di quadri

c’è chi vende stuzzicadenti

o grandi automobili

c’è chi rimane sempre

sepolto come una patata

ma io da grande

io farò il pirata.”

 

“Ti piace?”

“Cosa: la poesia o la pietra?”

“Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda!”

“Mi dispiace per te, davvero.”

Ecco, proprio quello che non voglio: compassione e patetismo. Adesso scenderà dal motorino, verrà qui ad abbracciarmi, tipo solidarietà adolescenziale.

“Perché dovrebbe dispiacere a te, una mia  cosa che non dispiace a me?”

Ecco, anch’io ho risposto con una domanda…

“Non è vero che non ti dispiace.”

E’ scesa, infatti, e si avvicina. Ora mi abbraccia, e non è così male: io riscaldo lei, e lei, sì, sento che serve anche a me un po’ di calore, proprio stasera, stasera che non so, non so davvero… che succederà?!

“Non è vero… che a me non dispiace… che mio padre vada via?”

“No, non è vero.”

“No, non è vero?”

“Sì, è così.”

E stavolta forse ha ragione, ed ha pure le labbra così morbide, mi va di baciarla, mi fanno piacere le sue mani su di me… è così buio, qui, la notte è breve l’estate ma questa notte qui non finisce mai!

“Cosa vuoi fare con quella? Sfogarti?”

La notte delle domande. Eh ne ho già così tante nella mia testa!

“Non è un po’ troppo grossa?”

“Grossa, sì… sarà una cosa grossa!”

Continua a baciarmi, forse tutto dovrebbe essere così: contatti, baci, sensazioni… ma le parole uccidono tutto, le parole, troppe parole, come le macchine, corrono sempre, sempre in movimento, strusciano e stridono, e spesso uccidono, e comunque fanno rumore… ma poi ci sono i fatti, e lui molla mia madre, me, tutto, se ne frega, o forse gliene importa troppo, e ci soffriva, che ne so?! E quel mostro di Valerio…

“Grossa, sì… Valerio ci sarebbe servito.”

“Valerio… non è cattivo… ha solo creduto una cosa, che non era vera, non posso spiegarti, me l’ha detta lui, ma mamma mi ha spiegato… cazzo: perché la vita è così incasinata.”

“E’ questa città. Ce ne andremo. Almeno, io me ne andrò.”

“Come tuo padre?”

“Sì, pensa, se ne va lui che sembra fatto apposta per qui!”

“E dove andiamo?”

“Non lo so. Comunque, dovremo fuggire.”

“Perché?”

Come spiegare qualcosa che io stesso non so? Eppure, succederà tra poco. La mia vita cambierà per sempre. E non è un film, è storia vera, qui, adesso, la mia storia la mia vita il mio futuro. Ma lei, perché coinvolgerla?

“Perché dobbiamo fuggire? Spiegami. Se andiamo via è una scelta, no?

Quante domande stasera! E quante poche risposte!

“Vuoi finire anche tu come Valerio?”

“Io non voglio far male a nessuno.”

“E se fossi io a chiedertelo?”

Cazzo, mi incasino sempre più! Vorrei allontanarla, invece…

“Io non voglio essere come Valerio! Sentirmi sulla pelle gli anni che scorrono, e io lì, lì dentro, in mezzo ad altri disperati…”

“E perché? Quanto credi ci resterà? Si è già pentito, così ha dichiarato, no? Troverà subito qualche cazzo di prete che lo farà uscire: loro adorano le pecorelle smarrite, anzi, quelli sani gli stanno sulle palle, non sanno che farci! Come gli psicologi. E poi, Aziz ce la farà.”

Ma sì, sì, si risolverà tutto, io sarò libero, indipendente, mio padre lontano, l’attività avviata… perché incasinarmi tutto, tutto?! ‘Almeno una volta all’anno tornerò’, sono queste frasi del cazzo che non sopporto! ‘Tu, potrai venirmi a trovare, quando vuoi. Magari ora non ti va, neanche a pensarlo ma… anche con tua madre, se mai le andrà. Crescendo, Alessandro, si chiariscono molte cose… o forse s’ingarbugliano ancora di più: vedi? Comincio anch’io ad avere dei dubbi!’ Che cazzo, papà, era ora! Però non gliel’ho detto! Avrei dovuto? ‘Oppure, la verità è proprio questa: solo ora vedo chiaro? Non so, non lo so più. Cristo, Alessandro, ma perché non parli?!?’

“Sta andando all’aeroporto, in macchina con lei: passerà qui sotto, certamente. Il traffico sarà veloce, a quell’ora.”

Che faccia farà? Non vedo niente. Glielo dico lo stesso:

“Proviamo?”

“Provare?”

“Sì, cosa cambia? In ogni caso non lo rivedrò.”

Angela, la Santa.

“Si sposerà con lei, laggiù: spenderà tutto quello con quella lì, e lei è poco più grande di me!”

“Ti ha lasciato il negozio di articoli religiosi.”

“Mi ci vedi lì dentro?”

Ancora domande: perché non riesco a formulare un’affermazione stasera? Eccola: non voglio stare in nessun negozio, al limite era meglio l’armeria che in fondo è il posto meno ipocrita di tutti in questo mondo dove si combattono centinaia di guerre al giorno: le armi sono come il cibo, indispensabili,e infatti in troppi mangiano troppo e sparano troppo: tutto troppo! E in questo schifo, io dovrei stare a rimirarmi chi viene a comprare statue e immagini che dividono anch’esse le persone in fedi club regole e fazioni anche quando si parla di Dio, e di un Dio unico per giunta, ma per tutti diverso, ma diverso da quale altro, da chi, e mia madre che fa, starebbe lì accanto, e come farebbe senza i suoi bridge e le sue chiacchiere su pellicce e gioiellieri? Domande, solo domande!

“A te dei soldi non importa nulla.”

“Ora. E se domani cambiassi idea? Dicono tutti che è solo perché sono giovane, che poi capirò: i soldi, il potere: per una volta voglio credere ai vecchi, alla gente che ho attorno, e non solo a quelli dei libri!”

“Se lo facciamo, questo ci unirà, per sempre, vero?”

“Certo, sarà il nostro segreto.”

Segreto? Purtroppo ci beccheranno subito! O no?

“Ale, ho paura.”

“Anch’io.”

“E se ci prendono?”

“Sei minorenne, tu. E poi, ci metteremo laggiù, dietro la recinzione, uno dei tanti spazi inutili messi su per rubare denaro pubblico!”

Cazzo, ora faccio pure il comizio!

 

65.

“Perché ti fermi?”

“Non ce la faccio.”

“Sei pentito, vuoi ripensarci?”

“No, no, non è questo… è quel cavalcavia: lui non ci crederebbe, e se lo sapesse magari s’arrabbierebbe a morte… l’ho seguito, qualche volta. Come mai proprio qui… se fosse stato lui a seguire me? Il dubbio l’ho avuto, quello che mi è mancato è stato il coraggio di chiedergli… ma avrei dovuto spiegargli, perché anch’io venivo qumi chiederò sempre se lui sapeva, se magari questo l’ha messo contro me… un ragazzo non può capire cosa significa essere accanto a una donna che da anni non ti guarda più come uomo! Venivo, in questa zona, ogni settimana…ora anche a te dovrei dirlo, oppure no, era una piccola cosa, perfino un po’ squallida.”

“Non m’importa, lascia stare il passato.”

“Ma lui è ancora il mio presente… è solo per lui che sto in pena, anche se a volte lo detesto, quei suoi silenzi, i suoi problemi come se ne avesse lui solo: lo avrei preso a calci chissà quante volte, e forse chissà che non gli avrebbe fatto bene. Perché questo io vorrei per lui: il suo bene! Invece sta spesso lassù, guarda le auto... ma forse non è un male: legge, pensa, chissà…”

Andrea afferra la mano di Angela, perché sa che la sua stretta forte ma dolce è una rassicurazione che vale più delle parole. Infatti la risposta di Angela è in lento ma convinto avvicinament6 delle proprie labbra a quelle di lui, e il bacio è caldo, intenso, sa di caffè ma anche di tanto, tanto altro.

 

66.

Si è fermato; perché proprio lì sotto?

“Eccola, è quella!”

Oh povera Deb, che c’entra lei, ha il terrore sulla faccia, dovrei mandarla via, ma ora è tardi!

“Quando riparte, basterà lanciarla tre secondi prima. C’è qualche centinaio di metri, ha il tempo di riprenderer velocità.”

 

67.

Altrove, la vita va avanti. Almeno, così si dice. In realtà è il tempo che avanza, anche se ormai, grazie alla scienza, abbiamo dubbi anche su quello. E dunque in quel momento Roberta fuma l’ultimo sigaretto della sua lunga nottata insonne spesa tra carcere e ospedale. In quest’ultimo ha tirato un grosso sospiro di sollievo, non potendo urlare di gioia, quando ha visto Aziz socchiudere gli occhi. Nel primo, avrebbe voluto invece tirare un grande ceffone al figlio, ma poi gli ha afferrato le mani, riuscendo ad essere ferma, non consolatoria e arrendevole come nella tradizione materna nazionale; ma al tempo stesso comunque vicina:

 

“Non ti perdono. Quello che hai fatto non può essere perdonato.”

La stretta si fa più forte mentre quattro occhi si bagnano.

“Ma posso esserti vicina, se vuoi. Adesso, e dopo che avrai pagato.”

 

La guardia carceraria, lì a fianco, osserva.

 

68.

“Voglio stare con te, per sempre. Nessun dubbio. Forse uno solo: mio figlio. Con lui non ha funzionato come con te… perché con te va bene, no? Andrà sempre bene!”

 

Un ultimo, lieve sfiorarsi delle labbra, e l’auto di Andrea si avvia.

 

69.

"Eccola, eccola!"

“Contiamo fino a tre, ora!”

“Ale, sei sicuro?”

Cazzo, ancora una domanda, ancora, e ancora, e io la guardo, vedo la sua eccitazione ma è solo paura, e le sue lacrime in bilico sulle ciglia,pronte a scendere, come le mie… anch’io, davvero? Ma io, io devo girarmi, guardare la strada, lì sotto, lì, lì, lì!!!

O no?!

 

FINE.

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