“QUATTRO STREGHE”,
un romanzo di Alberto Bassetti
PROLOGO (dieci anni prima dei fatti narrati)
OVVERO COME IL CONTESTO STORICO E SOCIALE INCIDA PROFONDAMENTE SU QUELLA CHE NOI VORREMMO FOSSE LA NOSTRA PERSONALE UNICA IRRIPETIBILE (LIBERA?!) SCELTA.
Le ruote dell’auto corrono sull’asfalto bagnato. Nella notte, il rumore della pioggia scrosciante si mescola a quello del motore, che va spesso su di giri: una guida tesa e nervosa, che denota fretta ma anche tanta tensione, agitazione, confusione. In due curve successive le gomme sfiorano gli angoli del marciapiede spargendo schizzi d’acqua tutt’attorno: le gocce sembrano illuminarsi al riflesso dei lampioni nella città quasi deserta. Il veicolo improvvisamente si ferma restando in attesa, come un felino della sua preda. Finalmente qualcosa si muove, e lo sportello si apre senza essere richiuso: Il suono di passi veloci. Dopo attimi di inquietante silenzio, tre spari. Gli stessi piedi percorrono lo spazio inverso risalendo nell’auto che subito si riavvia sgommando in un goffo tentativo di sportività impossibile per quella vecchia macchina sulla strada quasi allagata. Sul marciapiede resta il corpo di un giovane riverso in terra, gli occhi spalancati in atteggiamento di dolore, incredulità, terrore: inizio anni ’80, un’altra mosca nella ragnatela del decennio precedente che porta incollata la triste etichetta ‘di piombo’.
PARTE PRIMA: RITROVARSI
OVVERO PERCHE’ IL TEMPO CI AVVOLGE COME LIQUIDO AMNIOTICO IN UNA VASCA DA CUI E’ COSI DIFFICILE RIEMERGERE (FORSE IMPOSSIBILE DA ABBANDONARE?).
Ecco, sento il rumore. Lui ha riaperto la persiana, mi spia, come sempre, lì dietro; mentre io sto sulla mia bella amaca: quanto mi piace! La chioma dei due grandi lauri, sopra di me, è il mio ombrello, mi ripara dal sole, oggi che è piena estate, come d’inverno sa proteggermi dalla pioggia. Intorno, anche il muro grigio mi protegge. Le cicale mi tengono compagnia, ma non mi bastano: per questo accendo il registratore che spande le note tenere di un violino ritmate dal forte timbro del piano. Ma neanche questo è sufficiente, perciò canto dentro di me una canzone di tanti anni fa: “Dondola dondola il vento la spinge cattura le stelle per i suoi desideri”; mentre ho in mano un libro di Marguerite Duras. E lui ancora mi spia, lo sento sempre su di me: lo stridore lievissimo delle imposte che si scostano, ma non è solo lui, c’è anche lei, è giunta dietro di me. Marta, i passi di Marta che mi raggiunge, che mi accarezzerà il capo sussurrando il mio nome: “Olimpia, piccola, cara Olimpia”, e mi dirà che va in paese a far la spesa, come ogni giorno; e che bisogna riordinare una qualche stanza della casa, forse la soffitta, o la cantina, mentre magari mi spengerà la musica, spiegando che già c’è troppo rumore: lei le odia, queste cicale, poverine! Le schiaccerebbe tutte, una per una, oppure infiggerebbe uno spillone nel loro ventre, e poi gli darebbe fuoco, sì, le piacerebbe sentirle crepitare, cicale cotte calde croccanti, chissà se da qualche parte del mondo le mangiano, forse vorrebbe assaggiarle anche lei, che mi chiederà perché indosso sempre questa tuta lisa, che invece secondo me è bellissima, e comoda, e non devo stare attenta se si macchia nell’erba: è dello stesso colore, gliel’ho spiegato mille volte! Ah, devo nascondere le foto, Rossana, Giorgia, Claudia, se me le trova ricomincia con un’altra predica. E soprattutto, come ogni volta, mi raccomanderà di andare dentro, a vederlo: “Almeno una volta”, dirà, “ma non starci tutto il tempo!” Allora, che vuole da me? Appena uscita, mi alzerò per riaccendere il registratore.
Le strade di Genova oggi sono ancora più intasate: colpa della pioggia, chissà. Quest’inverno proprio non vuole andarsene. La potente Saab turbo di Claudia appare ridicola e impotente, ferma e impossibilitata al pari delle più modeste utilitarie che la circondano. Ma no, qualcosa di diverso c’è, altroché! La praticità di quel telefono vivavoce che le permette ora di cambiarsi d’abito continuando a parlare: perché non si deve sprecare neanche un attimo, no: Vivere Vivere Vivere... ah, la segreteria telefonica!
“Fabrizio, Fabrizio, ci sei? No? Era solo per avvisarti che non torno a casa, stasera”.
Ma Fabrizio c’è, e ora risponde: “Non è possibile, anche stasera!”
“E’ possibilissimo: ho una cena importantissima coi giapponesi. Non aspettarmi alzato. Ciao.”
Neanche il tempo per un’altra, ancor più blanda protesta. Fabrizio riappende, pensando a vantaggi e svantaggi dello stare con una donna più grande -ancora giovanissima, trentacinque anni, che sono?- così bella, così efficiente nel lavoro, così brava a far l’amore, e così…
Il fragore del mortaio è assordante. I lampi che si propagano nel cielo, col loro odore di polvere da sparo che ricorda quella dei fuochi d’artificio, non hanno nulla di festoso. Non servono a scacciare i demoni come nelle sagre di paese, anche se proprio qui questa funzione sarebbe tanto utile! Ma il demone non si scaccia, è dentro ciascuno di noi: com’è possibile, altrimenti, giustificare questi continui eccidi in una povera terra d’Africa dove ogni sforzo e risorsa dovrebbe essere spesa per cercare di raggiungere accettabili livelli di sopravvivenza?
“Allora perché, perché tutto?”.
Sono frequenti i dubbi di Rossana, ma non ha il tempo di rimuginarli. Già una barella entra con un ferito, o un morto, cos’è: ma cosa cambia? Qui la vita è una banale lotteria: sopravvivi al parto, come farai poi a nutrirti? E il sole, le epidemie, la siccità, ma perché aggiungervi tanto odio e dolore?
“Basta: che pensieri banali, i miei. A trentacinque anni, ancora faccio finta di non sapere come va il mondo? Com’ è sempre andato, e come sempre andrà! Cosa voglio, che tutto cambi improvvisamente: ora, qui, o dappertutto?! Per fortuna ho poco tempo per rimuginare, devo correre, accorrere, accudire, salvare, provare almeno a mantenere viva una persona, un essere umano, una vita in più, ma per cosa? No, basta! Il laccio emostatico, presto, una siringa, dov’è il chirurgo: dove cazzo è, perdio!!!”
La scala del tribunale di Genova è ampia e imponente. Gente che si affretta come formichine col carico di documenti e carta bollata. Avvocati, li chiamano. Gli altri sono dei rompipalle che credono di risolvere le loro questioni davanti a un giudice.
“Ma se sono tre mesi che quello stronzo non mi paga gli alimenti!”
“Giorgia, non fare così: un’ altra scenata di queste e ti addosserai tutte le colpe. Sono quattro mesi che non gli fai vedere vostro figlio, ecco perché non paga.”
“Gli dai pure ragione. Grazie, avvocato, il mio avvocato, la mia amica, oltretutto: bella solidarietà femminile!”
“Non c’entra l’amicizia, e nemmeno la solidarietà femminile, te l’ho detto mille volte che l’equilibrio di tuo figlio viene prima dei tuoi rancori.”
E’ quasi l’una quando Claudia rientra nel suo appartamento. Lui è ancora lì, dorme davanti al televisore, proprio come un bambino, un bel bambino; e stasera vuole esserlo anche lei, e proprio come una bambina le vien voglia di scartarlo e ciucciarselo come una caramella.
“Che fai, ancora sul divano? E’ tardi, dovresti essere a letto!”
Lui apre gli occhi e non capisce, la vede ed essi s’illuminano: l’amore sincero di chi ancora non sa bene perché proprio lui sia, o creda di essere, quel privilegiato.
“Chiudi gli occhi, torna a dormire, ci penso io a metterti a letto.”
Le piace giocare, dopo una dura giornata tra studio notarile e pranzi di lavoro: è bello tornare a casa sapendo chi ti aspetta.
Lui blatera un incerto: ”Che ora è?”, ben felice di non saperlo né volerlo sapere. Richiude gli occhi mentre lei gli toglie il maglione, e sbottona la camicia. Languido e beato, ora sembra davvero addormentato, pesantemente, e lei deve far forza per scostarlo dal divano e potergli togliere i pantaloni. Si inginocchia davanti a lui per sfilargli anche le calze e sorride a scoprire sotto le mutandine del dormiente il rigonfio prepotente del suo organo sessuale. Finge d’ignorarlo andando a baciargli i capezzoli. Li succhia, delicatamente. Improvviso, un morso lo fa sobbalzare, lui apre gli occhi ed estrae un po’ di lingua in attesa di un bacio. Con gesto affettuoso ma perentorio lei ricaccia col dito la lingua nella bocca; poi, però, indugia lasciandovi la mano di cui lui succhia le dita. Poi lei scende giù, in basso, e si dedica ai suoi piedi; lui freme, indeciso se ritrarsi o godere. Solo un attimo, si rilassa e lascia fare: quel po’ di solletico scompare di fronte al piacere, anche quello che verrà. Lei infatti è giunta al suo ombelico e lo ispeziona con la lingua. Ora, davvero è tempo di slacciare i due bottoncini dei suoi boxer -che buffi, con l’immagine di Bug’s Bunny, comprati insieme quell’estate, a Londra- e prendere finalmente tra le labbra quel coso grande e gonfio che è ormai impaziente e stanco di venir ignorato. Lo fa scendere dentro di sé, tra la lingua e il palato: lo sente, è buono, è suo.
Il chirurgo sta incidendo la carne dell’ennesimo bambino dilaniato quel giorno dall’ennesimo ordigno. Follia su follia: per salvare quella carne ferita, c’è bisogno di ferirla ancora! Eppure è così! E’ la vita, è la morte. Il bimbo infatti cede, è un altro che non ce l’ha fatta. Non è quasi meglio, dopotutto? Attenta Rossana: questi strani pensieri non si addicono al tuo ruolo di infermiera volontaria da cinque mesi in prima linea, e non per la prima volta: chissà, sarà l’ultima? Comincia ad essere davvero dura, quando non si ha nemmeno più l’assoluta certezza dell’utilità di servire una persona che soffre in maniera così reale, concreta, tangibile. Troppo Reale Troppo Concreta Troppo Tangibile. Troppo, sì, troppo!
L’appartamento di Giorgia è modesto. Decoroso, però. Perché a quello, almeno a quello, lei ci tiene. Certo, ora che mancavano anche i soldi di lui, è stata dura: ma ce l’ha fatta. E’ sempre stata, o almeno sembrata, la più docile, semplice, remissiva delle quattro. Le sue cose ha saputo farle sempre bene, però!
“Metti il maglione pesante.”
“Sì, mamma. Lo so.”
“Non rispondere sempre con l’aria scocciata!”
“Dai che l’ho già messo, me lo hai detto tre volte.”
“Ma devi proprio andarci in montagna con…” Sta per dire “quello lì”, ma sa trattenersi e si corregge: “Tuo padre?”
“Mamma!”
Le frasi di lui son tutte una continua perorazione a “non scocciare”, e il peggio è che forse ha ragione. Probabilmente i grandi son fatti per rompere le scatole ai piccoli, e creargli problemi, problemi e basta. E se non basta allora bisogna aggiungere: angosce, complessi, ansie. Così le ha detto la psicologa del tribunale, convincendola a mandare il figlio di nove anni in vacanza col padre.
“Senta, Giorgia, si vuole una buona volta rendere conto di cosa potrebbe significare la crescita di suo figlio in un simile clima, tra genitori non solo separati, che oggi è cosa molto comune, e perciò psicologicamente ed anche socialmente tollerabile… ma vedere, vivere, respirare questo clima di continuo rancore, dissidio, odio tra di voi!”
“Io non lo odio”, aveva risposto, perché una bugia ogni tanto può essere necessaria, aggiungendo poi: ”Voglio solo non vederlo più, che mi lasci in pace a vivere la mia vita.”
“Ma quel figlio è anche suo.”
“Suo? Mio!”
“Suo, di lui, il padre, suo ex marito, non faccia finta di non capire!”
“Era allora che non capivo, altroché. Perdere il mio tempo con uno così!”
“Però quel tempo c’è stato, e ha dato i suoi frutti. O uno, almeno: vostro figlio. Questo fatto non si può cancellare.”
Fatti, frutti, il tempo, il passato, la responsabilità, la colpa, ieri, oggi, l’odio, l’amore, l’indifferenza.
Già, però quando si è giovani, troppo giovani, e si è appena passato quello che aveva passato lei, anzi LORO: Claudia, Rossana, Olimpia. Chissà che fine avranno fatto?
La valigia è pronta: poca roba, non servivano abiti da sfoggiare, quaggiù.
“La jeep sta per arrivare. Mi mancherai.”
Che strana idea, Rossana, quel legame con Jean-Yves, qui, in mezzo all’odore del sangue e della morte, chissà, forse proprio per quello: la predilezione di lui per Baudelaire, magari le sue poesie sulla morte.
“E’ la morte che consola, ehilà! E che fa vivere.
E’ lo scopo della vita, ed è la sola speranza
Che, come un elisir, ci carica e ci inebria,
E ci dona il coraggio di marciare fino alla sera.”
Ma ieri sera no, non avevano parlato di morte. Avvinghiati nel lettino della sua stanza, in un momento di riposo ma con l’orecchio vigile a percepire all’istante qualsiasi richiamo di emergenza... una gatta era comparsa tra loro. Mentre lui era dentro di lei, e lei affondava le sue unghie -corte, per fortuna- con insolita violenza nei suoi glutei, lui le ha sussurrato un’altra poesia del suo poeta, più famosa, più bella!
“Tu, tu sei la mia gatta, tu, tu, gatta.”
Ma non era un po’ troppo banale? Laggiù, in un posto dove il dolore regna incontrastato. Sì, proprio lì, proprio lì era bello, in quel dolore che sa di peccato e di espiazione, di rimorso e di redenzione, lì, proprio lì spalancare le gambe ad un uomo che non credeva possibile di trovare una vergine della sua età. Perché Rossana gli uomini non li aveva davvero cercati, e a loro aveva messo addosso sempre un po’ troppa soggezione con quel suo fare da arrabbiata e anticonformista. Chiamare ”gatta” lei, ora, questo era davvero troppo! Olimpia, sì, Olimpia sì che era una gattina, ma perché “era”?! E’! Chissà che fine avrà fatto, Olimpia?
“Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore amoroso.”
E’ tardi, è tardi: l’auto è arrivata. Addio Jean-Yves.
“Trattieni le unghie nella tua zampetta.”
Lo farò, certo che lo farò. Ci rivedremo, sì, addio.
“Ciao.”
Dalla finestra Giorgia agita la mano. Ma non fa in tempo ad addolcirsi per la risposta pronta e calorosa della mano del figlio che dall’auto spunta anche quella del padre, si agita, ecco che attraverso il parabrezza la saluta. Lei non vuole averci più niente a che fare!
E ora che si è soli, che c’è di peggio, anzi no, di meglio che accendere il televisore? Questi TG, però, sempre gli stessi, facce da cazzo di politici inutili che blaterano ciascuno una propria opinione sui non fatti che le loro eterne diatribe si procurano di creare e alimentare; annunciatrici che sbagliano accenti e pronunce e sono perfette solo nell’acconciatura di quei capelli che muovono con grazia non richiesta; notizie abbondantissime e immancabili, sulla digestione del papa e del presidente, non si sa quale dei due sia più vecchio nel pensiero e nella forma; e per finire, l’ondata di notizie sul calcio, il calcio, e poi ancora il calcio. Però bisogna vederlo, non si sa mai, ogni tanto qualcosa di utile, una notizia, un’informazione, una faccia: Dio, quella faccia lì, è proprio lui?
“Corruzione, mazzette, riciclaggio.” “Giovane manager d’industria.” Lui, proprio lui, com’è cambiato, sì, era uno dei tre, oddio, e se adesso... ma perché, che c’entra, una squallida vicenda di mazzette con la storia loro? Quella più personale, più grave, atroce, squallida, quella che riguarda Olimpia.
Bisogna uscire a comprare il giornale, sapere cosa dice, quello, quello lì, quello che era in televisione poco fa, in foto, insomma... sentire se ha detto qualcosa, se ha parlato di...
“Ah, che sciocca: macché, macché, di cosa mi preoccupo? Che bambina isterica che sono, a volte.”
Ride, ancora un attimo ride: di se stessa, del mondo, degli altri, delle sue paure.
Poi, in un attimo indossa il giaccone e scende a comperare il giornale.
Claudia è sempre elegante, sempre, anche quando esce da studio, soprattutto quando esce da studio. La giornata è faticosa, ma piena di soddisfazioni. In fondo ha avuto ragione papà, sarebbe stato folle non approfittare: uno studio così ben avviato, clienti vecchi e altri da scovare, ambiente alto, reddito alto, tenore alto, alta montagna d’inverno, alto mare d’estate, a volte anche a tempi inversi, stagioni ribaltate: tutto bene, davvero, no? E stasera neanche un impegno, se non quel simpatico studentello di otto anni più giovane di lei, che tiene in casa da mesi; ma guai a chiamarla convivenza, vuol essere libera, lei, allora sarà bello anche stasera, ogni volta è un appuntamento nuovo perché potrebbe essere l’ultimo, anzi no, certamente non l’ultimo, però chissà? Tornare a casa, con questo freddo e questa pioggia, brrr, che bello, com’è che ha detto:
“Ti aspetto, fai presto, sarà tutto pronto, caldo caldo appena arrivi!”
“E tu, come sarai, tu?”
“Bollente!”
Che simpatico, quel suo disponibile compagno, e che fortuna non avere impegni, stasera, perché è così: quando sei abituata ad uscire sempre, una sera in casa è la novità, la vera uscita, no?!
Qualcuno suona il clacson, che antipatici e che maleducati, distoglierla da certi molli, avvolgenti pensieri.
L’auto dell’antipatico e maleducato si accosta a Claudia che cammina veloce verso la propria auto reggendo l’ombrello.
“Dio, fa che non sia uno dei soliti coglioni che gli tiro subito un calcio sulla portiera!”
E quello insiste, lampeggia coi fari, ma lei non vede nulla, dai bordi dell’ombrello è una colata di pioggia, e così i vetri dell’auto che suona e... ah, una donna, allora è diverso; ma quella faccia, sì, la conosco quella faccia, non può essere: Giorgia?!
“Continuo o mi fermo, la mia auto è là, a cinque metri. Salgo e parto, che importa? Ma ormai ha capito che l’ho riconosciuta!
“Giorgia: non è possibile, sei tu?”
Non importa se piove. Giorgia scende dall’auto ed è più forte del tempo -quello atmosferico e quello cronologico- del ricordo e del pudore. Si abbracciano forte, così: senza parole.
Anche in questo bel caffè le parole fanno fatica a uscire. E’ strano, dopo dieci anni che non ci si vede, chissà quante cose da dire, troppe, ecco perché non ne esce neanche una.
“Cosa prendiamo?”
“Qualcosa che mi asciughi il vestito!”
Claudia sorride e ordina un punch al mandarino.
“Va bene anche per me. Con questo freddo.”
Non è una novità per Giorgia accodarsi alle scelte di Claudia, Claudia così carismatica, bella, naturalmente elegante senza farlo pesare se non per una quasi impercettibile tono di condiscendenza che fin da piccola non l’ha mai abbandonata. Ancora sorride, Claudia, stavolta un po’ scettica: “Allora, mi hai cercata proprio per parlare del tempo?”
Ora è Giorgia che atteggia le labbra in un misterioso sorriso: “Del tempo, sì. Del tempo passato.”
“Non m’interessa, capitolo chiuso. Mi spiace, Giorgia, dico sul serio: non parlarne.”
“Non è per ricordare. E’ successo qualcosa.”
Claudia fa per alzarsi, scuotendo il capo. Giorgia apre il quotidiano e glielo mette sul tavolo. La pagina aperta riporta tante storie: il viadotto allagato, un incidente mortale, una scuola che sta per chiudere; poi la foto di un uomo arrestato. Claudia torna a sedere, guarda non più coinvolta di prima.
“Non lo riconosci?”
“Ma chi?”
Giorgia indica la foto dell’uomo: “Vittorio Melis”. L’altra mostra di non capire. “Vittorio. Melis. Uno dei tre.”
Dall’aereo in volo, Rossana osserva la Terra dal finestrino: che stranezza, che follia! Quel mondo sembra così ordinato dall’alto, così scandito da fiumi, laghi, foreste, tutto sembra avere una propria collocazione, essere al suo posto, ogni zona ha un suo colore: il bianco della neve sui monti, il marrone rossastro dei terreni, il verde di boschi e foreste, l’azzurro scintillante dell’acqua; anche le strade sembrano scorrere precise con la loro precisa linea grigia… peccato che scendendo giù l’illusione si perda, tra l’apparire di oscene casupole, cumuli d’immondizia, focolai di guerra; e lo sporco in quelle acque in quei terreni, e fumi e gas di auto, fabbriche; e la tendenza non è al miglioramento, in un inizio di anni ’90 in cui la terra ha raggiunto i quattro miliardi di esseri umani. Ma l’impegno di Rossana, è quello di salvarne anche solo una, di quelle vite, una in più.
Il suo studio non è solo efficiente: è grande, elegante, luminoso; a Claudia piace fermarvisi, a volte, al di là non solo degli orari ma anche della necessità, così, per girarne le stanze, riaprire quella del suo papà che ha voluto lasciare immutata, ancora colle sue carte sul tavolo così come erano quando lui morì. E’ una questione di gesti, di affetto, non di memoria morbosa. Come quella di Giorgia, che le è venuta a riportare, anzi letteralmente a sbatterle in faccia -no, sul tavolo- un pezzo del suo passato. Quel pezzo. E adesso che si fa? Intanto, una bella sigaretta, poi prepararsi un buon caffè: impegnare le mani aiuta a dilazionare pensieri e soprattutto decisioni. Per paura di che, di cosa? Sì, meglio riprendere dal cestino il numero di Giorgia, chiamarla per dirle che è assurdo, che le sue paure non hanno motivazioni, che ciò che è passato è passato, sepolto, scomparso, forse non è mai avvenuto.
“Giorgia, ciao.”
“Allora, ci hai ripensato?”
“No, solo mi andava di sentirti.”
“Ancora pensi che sia una nevrotica impaurita?”
“Piantala, Giorgia: detesto le polemiche, specie quando non sono io a farle. La tua paura è folle, ma se ti va possiamo vederci. Strano tutto questo. Tu che mi cerchi, Rossana che sta per rientrare… da dove?”
“Africa, stavolta è in Rhodesia.”
“Sai anche quando?”
L’ aeroporto non è grande, meglio così. Magari sarà più facile individuare un volto che non si vede da anni.
“Neanche tu l’ hai più vista?”
“Sempre in giro, sempre via. E poi anch’io, te l’ho detto: Sicila, i nonni, il marito e mio figlio.”
“E’ bello però.”
Silenzio.
“Che cosa è bello, Claudia?”
“Vi siete tenute in contatto.”
“Lei, una cartolina ogni tanto nella vecchia casa dei miei. Mia madre mi diceva, al telefono; “E’ arrivata una cartolina della tua amica Rossana, è in India; oppure in Tibet, in Sudafrica, ovunque ci fosse guerra, fame, qualcuno da aiutare.”
I loro sguardi s’incrociano in un lungo silenzio carico di pensieri inutili da scambiarsi. Tanto sono gli stessi per tutt’e due. Poi Claudia distoglie lo sguardo.
“Guarda: si è acceso.”
Il video che annuncia gli arrivi lampeggia. Il volo dalla Rhodesia con scalo a Londra è atterrato. Parecchia gente, facce stanche, facce allegre, facce... dov’è quella di Rossana? Il gruppo è lì, compatto e frettoloso come sempre dopo un lungo viaggio. Rossana non c’è. Uno sguardo deluso, la amiche alzano le spalle, poi un attimo, un gioco, un’occhiata e già s’intendono, e urlano all’unisono:
“Strega! Strega!!!”
Le due voci risuonano nell’immensità del luogo e tutti si girano a guardarle, ma il loro imbarazzo è presto sciolto dal viso che resta a fissarle, due occhi scuri in un volto scarno e tirato, quasi un teschio: la testa completamente calva, niente trucco, solo un grande orecchino al lobo destro. E il vestire eccessivamente semplice, noncurante, che pure non cela un qualcosa di diverso, più morbido e aggraziato.
“Rossana!”
Il modo di venirsi incontro per un abbraccio spontaneo, intenso, sentito, può sembrare eccessivo a qualcuno dei presenti; qualcuno che magari è stato fuori una settimana, o un mese, qualcuno che non si ritrovi dopo, più o meno, dieci anni come loro tre.
Rossana ha voglia di rivedere la città. Cosa c’è di meglio che fermarsi su uno di quei ponti che attraversano le montagne facendoti improvvisamente, ogni volta, scoprire il mare? E’ bello guardarlo così, in silenzio, ciascuna ascoltando solo le proprie emozioni: interne, uniche e personali, segrete; davvero segrete per le loro tre? Ciascuna non starà pensando, più o meno rivivendo qualcosa che le lega e che non può mai escludere Olimpia? E già: che cosa starà pensando, adesso, Olimpia?
E’ caldo oggi. Ferragosto, troppo caldo. E’ lì, la lucertola, come gode sotto il sole. E tu Grigetta, micia mia mia bella, dove sei? Tu invece all’ombra, eh? Brava, fai bene, pssss, brrrr, frrrr. Musica, musica, tutta musica! Tu spegni ed io riaccendo, alzo anche il volume! “Cantate cicale, cantete, approfittate, ora che non c’è lei!” E’ bello strofinarsi così, l’erba rinfresca, è bello questo sole, niente ombra adesso: voglio abbronzarmi, sì, scottarmi. Grigetta dove sei, Grigetta: vieni, vieni a strofinarti con me, è bello così. Ma lo so che lui sta sempre lì a guardarmi, spiarmi da dietro la persiana. E non mi va, oggi!
Stavolta le tre donne lo sanno che, probabilmente, la loro mente starà rivivendo le stesse immagini. Più o meno tremilaseicentocinquanta giorni prima avevano lasciato quel liceo, felici ed incazzate del loro diploma. Cos’era quel foglio di carta rilasciato dallo stato borghese, cos’era quella chiave d’accesso ad un’università gestita da un potere oppressivo che negava pari opportunità e vera espressione di pensiero? Bisogna lottare, lottare. Tutti d’accordo gli altri attorno a loro, le facce seminascoste dai capelli lunghi, quelle spalle ricoperte, nonostante il caldo, da kefia bianconere o biancorosse; lo urlano le scritte sui muri della scuola, e di tutta la città. “MORTE AL SISTEMA. FASCISTI PAGHERETE. TUTTO IL POTERE AL PROLETARIATO. UN DUE TRE AMMAZZIAMO PINOCHET, QUATTRO CINQUE SEI AMMAZZIAMO PURE FREI, SETTE OTTO NOVE DIECI MORTE AI COLONNELLI GRECI.” Quanto ancora si potrebbe andare avanti con quei ricordi, ma sarebbe inutile, meglio guardare le facce di oggi, gli Anni Novanta che iniziano: è questa la realtà, né migliore né peggiore, semplicemente condizionata come sempre dagli avvenimenti tutt’attorno, oggi come allora, è l’aria che cambia, la musica, le tendenze, altri gusti vengono propagandati, altri miti e nuovi ideali, e i ragazzi sempre lì, convinti di stare a scegliere e di potere affermare le loro idee, battersi per esse, siano le incomprensioni familiari o quelle dei loro professori.
Rivedere la loro scuola fa loro un certo effetto, magari non quello che avevavo in mente, immaginandolo.
“Ma perché hanno tutti quei cappellini da base-ball? Che è diventato di moda, adesso, pure il base-ball, qui?!”
Rossana gioca a fare l’ingenua, in realtà in Italia era già tornata più volte, tra un viaggio e l’altro, e il mondo stesso, poi, non è tutto più o meno una grande, stessa, sola omologazione? No, questo no, non è vero, e può dirlo davvero lei, che lo ha visto da vicino, quel mondo così diverso, altro, disperato e programmaticamente infelice: programmaticamente in quanto programmato dal resto del mondo, anzi da quella parte di mondo che... uffa, perché riattorcigliarsi nelle vecchie diatribe ideologiche? In fondo, ognuna delle tre non sta almeno pensando che quelle giovani facce, sotto cappellini o zucchetti di lana occhiali scuri o magari anche crestine punk e cuffie di walkman, beh: sono le facce loro, le stesse, vent’anni dopo. Solo che non c’è nessuna Corea, nessun Vietnam contro cui urlare: i potenti si son ravveduti? No, solo fatti più furbi e discreti, meno espliciti: diciamo così!
Rossana prende ancora la parola: “Ecco, l’albero c’è ancora”
“Sì, quant’è alto! Che paura, che volo fece!”
“Cos’è che era andata ad appendere, su quel ramo?”
“Davvero non ricordi, Claudia? Un manifesto con Rosa Luxemburg, Olimpia adorava Rosa Luxemburg. Tu te lo ricordi, Giorgia?”
Non è venuta a nessuna delle tre, questa idea: così, semplicemente è uscita fuori, chissà da quanto tempo era lì dentro, ma si rincantucciava nel proprio spazio anziché uscire fuori, alla superficie.
Il palazzo dove era cresciuta Olimpia era lì, sempre uguale: non era invecchiato, lui, perché un palazzo almeno esteriormente può ringiovanire, basta rimetterlo a posto, gl’interventi giusti, la pittura, le stuccature, una trave di ferro se serve; peccato non si possa fare con le persone, con quello che hanno dentro: ricordi, ossessioni, rimorsi; ci ha provato e ci prova ancora la psicanalisi: con quali risultati? Ecco perciò tre donne con quasi mezzo secolo in più sulle spalle -non singolarmente, certo: ma a sommare gli anni in più di ciascuna delle tre- di fronte a un oggetto che rivedono più giovane dell’ultima volta. Il portiere no, però: lui è invecchiato, grazie a Dio verrebbe da dire, almeno lui, lui come noi.
“Ci riconoscerà?”, è la domanda che si muove nelle loro teste quando si apprestano a chiedere notizie di Olimpia.
“Sì, come no, mi ricordo bene di voi, le amiche delle sorelle Naldini, sì, della più piccola, vero? Olimpia, si chiamava.”
Il verbo al passato è un cazzotto ai loro stomaci. Specie quello di Giorgia, semplicemente perché è la più ansiosa. O quello di Rossana, forse: era la più vicina, intima. Claudia attende il seguito del discorso, che arriva rassicurante.
“Non so dove siano ora, si son trasferite da tanti anni. Poverette, dovevano aver avuto qualche brutto guaio, ma forse voi lo saprete meglio di me, eravate sempre assieme. Un po’ irrequiete, eh, ma è normale: quando si è giovani!”
Claudia pone una domanda alla quale lui ha già risposto: “Ma non hanno lasciato indirizzo, nulla?”
“Nulla. Certo fu strano. Olimpia, mi sembra, non usciva mai. Faceva tutto la sorella. Avevano solo il padre, ma quando morì vendettero la casa e se ne andarono. Zitte zitte, la signorina più grande...”
E’ come faticasse a rammentare il nome. Giorgia gli viene in soccorso: “Marta!”
“Sì, la signorina Marta ancora ci teneva a tenersi su, sempre precisa, elegante; anzi fu molto gentile, sì, mi salutò lasciandomi anche quello che non portavano via. La sorella la vidi solo passare. Anche di voi mi meravigliai, improvvisamente non vi si vide più qui. Pensai: ragazze, son giovani, chissà!”
Ragazze, ora, non lo sono più. Ma giovani ancora in qualche modo sì, e hanno tempo per tentare di capire. Ritrovare Olimpia. Appuntamento da Claudia, stasera stessa.
La vista, dalla terrazza dell’appartamento di Claudia, è di quelle mozzafiato. Il mare, tanto mare davanti a sé. Senso di spazio, libertà.
“L’uomo libero predilige il mare”. Rossana, rimirandolo nel suo notturno chiarore, ripensa alle parole di Baudelaire, quelle che spesso gli citava il dottore francese. Quante immagini, collegamenti, confusioni, ma chissà se è vera, poi, questa faccenda del mare. Si volta a guardare dall’altra parte: è davvero un privilegio, una terrazza che spazia a trecentosessanta gradi. Ecco la collina: di notte, non vedi il verde ma lo intuisci, e quelle luci accese che... sì, Rossana, pensala pure la cosa più banale, dì pure tranquillamente che sembra un presepe. Ma perché mai la collina, o la montagna, o la pianura, dovrebbero essere meno portatori di libertà? Cazzo, il problema è un altro.
“PSYCO KILLER, PSYCO KILLER.”
Le note giungono pressanti alle orecchie di Rossana interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Giorgia esce dimenando i fianchi, la prende per una mano e la trascina dentro, tra le onde sonore della voce di David Byrne che esce dal vinile.
“E’ freddo, vuoi prenderti un malanno? Riscaldiamoci un poco.” La abbraccia, e Rossana la guarda incuriosita e scherzosamente sospettosa.
“Cioè? Cosa mi stai proponendo?”
“Semplice: balliamo!”
“Cosa? Noi due?”
“Sì, dai, balliamo!”
“Ballare, e chi se lo ricorda?”
“Perché io, invece? Col marito che ho avuto, proprio a ballare pensavo... ma ora siamo tra noi, dai!”
“Non saprei neanche da cosa cominciare.”
“Così, dal bacino, guarda: muovilo così. Ecco, tranquilla, anche di più: esagera, agli uomini piace questo movimento.”
Rossana sorride e prende a dimenarsi anche lei, con un improvviso e profondo sospiro che sa di distensione, rilassamento, evasione. Davvero discoteche non ce n’erano laggiù. Ma neanche Giorgia appare molto allenata. Claudia invece, forse lei non è abituata a cucinare, è per questo che ci mette tanto a preparare gli spaghetti, tutto quel tempo di là, in cucina. Ecco la sua voce: “Ve la spassate di là, eh? Io qui a sgobbare. Ma sentirete che roba!”
Rossana è subito catturata dal senso di colpa: “Andiamo a darle una mano?”
“Dice che non vuole. E poi mi sto divertendo, questa musica è bella, guarda come sono sexy, che ne dici, se ci fosse John Travolta non impazzirebbe per me?”
“Ti farebbe scritturare subito a Hollywood, sicuro!”
“Guarda questo passo, te lo ricordi, eh?”
“Roba vecchia, ne so di più nuovi. Anzi, uno voglio insegnartelo, non è una danza, sono solo dei passi, perché in effetti qualche volta ci si provava anche lì, a fare un po’ di festa. Bastava un tamburo, anche qualcosa d’improvvisato, si muovono bene, da quelle parti, più o meno così, guardami: TUM TUM TUMTUTUM TUM TUTUMTUTUM.”
“Ehi , che succede di là? State folleggiando, eh?”
“Guardami i piedi, li muovevano così, velocissimi, dai, prova anche tu!”
“Com’è? Così?”
“Sì sì, esatto, sei perfetta: ti chiamerò Aneka.”
“Chi è?”
Improvvisa, come la vampata di un’esplosione, le monta la tristezza. Rossana smette di ballare e siede sul divano: “Era. Una ragazza, come tante. Uccisa da una mina, senza un motivo, senza una colpa. Un mese prima che partissi; anzi, uno dei motivi per cui ho deciso di mollare. Tutto inutile, tutto senza senso: un gioco macabro, una danza di morte. Scusami, Giorgia, faccio la guastafeste, lo so che non c’entra, ma lei è proprio quella che m’insegnò questa danza, una donna semplice, come noi. Anzi, anche questo c’entra poco: non siamo semplici per niente, noi.”
Giorgia le va vicino carezzandole una mano: “Si sta bene tra noi, che peccato esserci così perse di vista, per tanto tempo.”
Arriva la vita, o almeno il cibo della sopravvivenza, sotto forma di zuppiera fumante: “Ecco la pasta, mettetevi a tavola.”
“E dov’è il tuo maschietto, non lo aspettiamo?” La voce di Rossana è velata di sarcasmo.
A Claudia piace ribadire il ruolo di chi sa sempre organizzare sé e gli altri: “Spedito al cinema, con gli amici.”
“Gli hai dato l’orario per il rientro, e il permesso per comprare il pop corn?”
Claudia le guarda con occhi furbi e complici:
“Serata tutta per noi, ragazze: come ai vecchi tempi!”
Giorgia atteggia il viso ad un’ esagerata espressione di delusione: “Caspita, allora non ci raggiungono qua?”
“No, stasera godiamo così!” Claudia addenta una forchettata di pasta con slancio da fame giovanile, un gesto eccessivo e gioioso, subito imitata dalle due, quasi una gara a mostrarsi affamate e assetate. Birra, tanta birra, e poi, sedute sul divano, un ottimo ‘Porto’, le lingue si sciolgono ancora, gli animi volano. Che bello per Rossana stare in una casa così piacevolmente comoda, accogliente, borghese. Eppure qualcosa la disturba: è il suo karma, il suo spirito di contraddizione: “Alto borghese.” Rossana pronuncia la parola ad alta voce senza farla percedere da altro; come un emergere ad alto volume del proprio flusso di pensieri.
Le due la guardano, e Claudia domanda: “Che c’è?”
“Niente, è tutto così bello, qui da te, non credevo. Hai ogni cosa al posto giusto, e non parlo solo delle cose belle, no, anche i libri, sono così giusti, titoli tutti azzeccati, sprizzano cultura, intelligenza, apertura: dalla filosofia allo zen, dai classici ai minimalisti americani. Li hai letti tutti?”
“No, tutti no.”
“Sei proprio una donna realizzata.”
E Rossana termina il‘Porto’, come ponendo fine al suo discorso.
“Sembra che ti dispiaccia. Se anche fosse vero.”
“Non lo è?”
Claudia la guarda con fierezza, una fierezza un po’ ostentata, che sa un po’ di protervia; o più semplicemente, è solo seccata. “Sì, sono completamente realizzata. Felice, vedi? Quello che si può prendere, lo prendo, non aspetto la spinta degli altri. Ho il coraggio di pretendere tutto quello che posso, al meglio!”
“Qualche spinta però l’hai avuta anche tu, no?”
Giorgia non sopporta questo cambiamento di clima: “Ricominciate anche stasera; tutto come allora, eh, il tempo non passa per voi.”
“Per me è passato, eccome. Chiedilo a Rossana, se è passato anche per lei.”
“Sì, è passato anche per me, certo. Quello che mi dà fastidio non è quello che hai ottenuto, né come lo hai ottenuto.”
“Sono perfettamente consapevole che essere figlia di uno stimatissimo, ricco notaio mi ha aiutato, e allora?!”
“Non è quello, dico proprio il contrario: fai la tua vita, stai bene, e mi sta bene, ma poi eccoli là, in bella mostra nella tua libreria tutti i libri dell’impegno civile, quello presunto, comodo, quello che si fa leggendo il giornale impegnato e scandalizzandosi quando al telegiornale si vedono bambini uccisi dalla fame o dalle mine.”
“Alt, Rossana: piantala o sarò costretta a risponderti.”
“Fallo: dov’è il problema?”
“Nella tua testa, temo. Se pensi che io, per essere notaio, avere soldi e tutt’il resto, non dovrei più occuparmi di cultura, o di opere umanitarie, o di tutto quel che cazzo mi va!!!”
“Opere umanitarie, ecco: perfetto, risiamo proprio alle signore dabbene che compiono atti di carità, che impegnano una briciola, anzi mezza briciola dei propri guadagni in beneficenza, poi per salvare la terra e, visto che ci siamo, anche gli animali, s’iscrivono pure al WWF con una quota da vero sostenitore: lire trecentomila, rivista in carta ecologica compresa!”
“Hai fatto un quadro veritiero, lo sai? E’ proprio la quota che verso io, e credo che la carità, quando si può, vada fatta.”
“Le dai le mille lire al nero che ti lava il vetro? Mi sembri il papa, vestito d’oro per parlare ai poveri.”
“Sei ubriaca, o semplicemente scema?”
“Ah, cominciano le offese: lesa maestà?”
“Sei tu che hai cominciato. Le tue parole sono peggiori del mio ‘scema’!”
Giorgia deve intervenire: “Rossana, non credere che sia...”
“Zitta tu, pensa a fare la brava mamma! Che cazzo ne sapete voi?”
Claudia ha assunto uno sguardo intenso, penetrante, e pungente: “Tu saresti ancora capace di prendere un’arma e sparare.”
Rossana appare congelata. E’ un attimo. Poi prende la borsa ed esce.
Giorgia tocca un attimo la mano, fredda, di Claudia. Vuole mostrarle comprensione, solidarietà, poi si alza convinta di dover essere vicina anche a Rossana, la più debole, o forte, o rompiscatole, il sistema difensivo è rimasto vigile, energico, esplosivo come allora, sì, esplosivo, e lo ha già dimostrato una volta! Ora bisogna raggiungerla, comprenderla, recuperare quel rapporto che si era ricreato così bene, dopo tanti anni. Perché fare di nuovo finire tutto? E Olimpia, Olimpia? Scende le scale di corsa, nient’ascensore, bisogna raggiungerla, Rossana è lì, appoggiata al muro: piange, e Giorgia non deve fare nessuna fatica per recuperarla. La stringe a sé, semplicemente, quella semplicità che è spesso la cosa più difficile, contrastata da mille barriere, le barriere del nostro silenzio, della solitudine, della sfiducia verso gli altri e, ancor prima, se stessi. Ma è bello ora per Rossana semplicemente poggiarsi su quella spalla accogliente, farsi carezzare la nuca da quelle mani di un’altra donna, amica, compagna. E il resto scompare, cullata da un’onda morbida e per niente fredda: lunga, continua, come il flusso di emozioni che le fa scaturire; vorrebbe dire tante cose ma forse sarebbe più bello godersi il silenzio rotto solo dai propri singhiozzi, no, qualche parola non ce la fa a restare chiusa nello stomaco. E’ quasi un sussurro, nelle orecchie dell’amica.
“Oh, Giorgia, perché? Ho bisogno di te, di voi, è per questo che sono tornata, non ce la faccio, siamo soli sempre, dovunque, ma non qui, non può essere, qui dobbiamo esserci noi, il nostro passato, e adesso, adesso noi tre, unite come una volta, perché una volta era tutto più facile, più chiaro, anche gli errori sembravano belli, non c’ero mica solo io quella sera, no? Eravamo noi quattro, c’era Olimpia.”
Caldo o non caldo bisogna tenersi in allenamento. Piegamenti, collo, braccia, addominali. E in questa stanza si sta bene sempre, qui non fa mai caldo. Grigetta dove sei? dai vieni a farmi compagnia che dopo la ginnastica voglio finire il libro, mancano poche pagine. Va bene, no, no, stattene pure tranquilla dove vuoi, va bene, bisogna star soli quando si ha voglia di star soli. Allora speriamo che lui non mi chiami, ho voglia anch’io di star sola, non è così facile quando c’è Marta: approfittiamo, approfittiamo, come ogni giorno a quest’ora, quando non c’è il gatto i topi ballano, oppure fanno ginnastica! E adesso il Martagatto non c’è e non può criticare sempre tutto con quell’aria, ah, da vecchia mamma gufo! Ah, via, su, uno due uno due uno due.
Non è vero che i commissariati di polizia son sempre luoghi squallidi; questo per esempio è in una bella palazzina: liberty, cos’è? Giorgia lo rimira ma non per studiarne l’architettura. Quando riabbassa gli occhi dall’edificio continua a buttarli sull’articolo del giornale che, in cronaca locale, riporta così dettagliatamente l’interrogatorio a Vittorio Melis. Si sente sciocca, un’ebete quasi, il suo intelletto è ben consapevole che nessuna notizia potrà venir fuori riguardo a lei -loro- dopo così tanti anni. E poi, che interesse avrebbe, lui per primo, autoaccusarsi di una cosa che nessuno ha saputo, o almeno denunciato. Finora. Non se ne è resa del tutto conto, ora è già nel commissariato, il poliziotto di guardia la osserva con bonaria ironia: certo dev’essere buffa con quell’aria pensosa, il giornale sotto il braccio e una grossa busta della spesa nella mano destra.
Proprio per uscire dall’imbarazzo fa una domanda un po’ azzardata:
“Volevo chiedere un’informazione. I verbali di un interrogatorio sono segreti o si possono leggere?”
“Dipende, per cosa le serve?”
“No, no, così, una curiosità.” Accenna al giornale: “Sono un’appassionata di cronaca.”
“E allora legga quello che riporta il giornale. Sui giornali ormai scrivono quello che gli pare, perciò chissà, magari i fatti che inventano loro sono più veri delle dichiarazioni degl’indagati.”
Bel paradosso, c’è da uscirne rassicurati!
L’acqua della grande piscina olimpionica è limpida, fa un bell’effetto ora che è quasi vuota. Solo una cuffia emerge tra le braccia impegnate in un perfetto crawl, ma Rossana non può riconoscerla: la sua amica, Claudia. Perché amica resta, anche con le sue parole che sanno ferire, con quei diverbi quasi imprescindibili per loro, per il loro rapporto: così era allora, così è stato l’altra sera, a casa sua. Le piace stare ad osservarla, le è sempre piaciuto tanto il corpo femminile, sempre più di quello maschile troppo forte, troppo rude, aggressivo, spesso volgare. Ora la mano di Claudia sta per toccare il bordo della vasca, pronta a riprendere l’ennesima traversata. Si ferma, perché la mano di Rossana afferra quella sua... Rossana, che la fissa negli occhi, almeno, così le sembra, meglio togliere gli occhialini: sì, proprio Rossana, cosa vorrà, la lite o la pace?
“Claudia, voglio che ritroviamo Olimpia. Insieme.”
Anche il bar è bello, proprio un circolo esclusivo, quello: logico, non può che trattarsi bene, una come Claudia! Ma questa non è sera per polemiche, vero Rossana? E poi, affiora qualche dubbio.
“Sbaglia, lei che lo può, a godersi la vita? Ho veramente migliorato il mondo, io, dieci anni in mezzo ai moribondi, agl’infelici, alle assurde guerre dei disperati?”
Ma è Claudia che spezza il corso dei suoi pensieri: pronta, efficiente come sempre:
“Ho chiamato il dodici cento volte, nessuna traccia di nessun cognome Naldini: né Olimpia, né Marta. E tu, trovato niente?”
Rossana scuote il capo rivedendosi alle poste centrali con la sua pila di elenchi telefonici davanti: “Nulla neanch’io: scomparse.”
L’appartamento di Giorgia è ben diverso da quello di Claudia. Ma è molto accogliente, pieno di cianfrusaglie: beh, lei è una donna che ci tiene, ordinata. Fino a un certo punto! Il figlio è come tutti quelli della sua età: rientra a casa e butta tutto all’aria, e allora lei, che deve fare? Non è bello anche per lei buttare tutto all’aria? Specie ora, che lui è via col padre, non c’è nemmeno da dare il buon esempio! E allora tutto per aria, tiriamo fuori tanti vecchi oggetti dall’armadio: rivedere cosa c’è in quella scatola, scartabellare ogni foglio o fascicolo nella busta, alla ricerca... quest’è il tempo dei ricordi, pare, no? Riappaiono vecchie facce, si rivedono vecchie amiche, riemergono vecchie paure, rimorsi, anche rabbie! Ma non scordarlo, non dimenticarla; mai scordato, mai dimenticata: lei, Olimpia…
Quando sente suonare il citofono, Giorgia è proprio intenta a guardare un cassetta di ferro dove tiene alcuni degli oggetti che le sono più cari: minuscoli pupazzetti, di quelli che usava portare con sé in tasca o nella borsa, come dei portafortuna; tra questi una strega di vetro che uguale ad altre tre. Chissà se anche loro l’hanno conservata? E la chiavetta del cassetto della cattedra: rubata, e duplicata all’insaputa del professore e degli altri compagni di classe. Poi, articoli di giornale: “L’università occupata. Gli scontri. Rischia la vita il giovane ferito la notte scorsa.”
Bisogna andare ad aprire la porta, le due amiche sono incollate al campanello già da qualche istante.
“Ehi, quanto ci hai messo”
“Stavo riordinando delle cose”
“Sì?”
Claudia si guarda attorno: “Strano, sembrerebbe piuttosto che tu stia mettendo tutto in disordine!”
Sorridono le amiche.
“Sedetevi, vi prendo qualcosa da bere”
Ma Rossana viene subito al dunque: “Abbiamo deciso di ritrovare Olimpia”.
“Si, è stata Rossana a proporlo, ma io sono perfettamente d’accordo. Come una volta. Vogliamo essere tutt’e quattro dello stesso parere”.
Giorgia si apre a un sorriso.
“Ti fa sorridere, quest’idea?”
“Hai detto tutt’e quattro, Claudia; che la decisione la dobbiamo prendere tutt’e quattro, come una volta, come in ogni occasione. Ma ora Olimpia non c’è: la decisione spetta a noi tre.”
“Ho detto quattro? Sì, mi correggo: noi tre.”
“Noi l’abbiamo presa, Giorgia. Non c’è bastato passare lì, la vecchia casa, la scuola: sono ricordi del cazzo, non servono a niente. Se però Olimpia sta male, se Olimpia è sola, se ha bisogno di aiuto: io la ritroverò, anche da sola, anche il capo al mondo”
“Ehi, calma con l’empito romantico! Io ti ho già detto che ci sto. E anche Giorgia, no?”
“Certo, come no? Anch’io.”
“E’ che non sappiamo da dove cominciare. Come fanno nei film, quando devono trovare qualcuno?”
“Mettono un annuncio sul giornale! Dio, no, poi magari la sua foto finisce accanto a quella di Melis!”
Claudia sbuffa: “Senti, Giorgia, finiscila una volta per tutte con questa storia di Melis, non ce ne importa niente di quel fesso, che vuoi che venga a tirar fuori una storia che può nuocere prima di tuto a lui?”
“Beh, se dovessero arrestarlo, una confessione in più potrebbe fargli gioco”
“La confessione di un fatto di dieci anni prima, di cui nessuno gli ha chiesto niente, e che neanche lo riguardava in prima persona? Ma che dici, quello è un furbo, indagato per tangenti, non c’entra proprio niente!”
“Sì, è vero, ma sei proprio sicura? Io ho anche Marco cui pensare; e tu, Rossana, che dici?”
“Scusami, ma a me delle tue paure da neuro non frega proprio nulla!”
“Beh, signore: ‘paure da neuro’ un corno! Qualcosa è pure successo, allora, o no!?”
“Proprio per quello che è successo, per dare un senso alla nostra giovinezza, per non dire che l’abbiamo buttata al vento: dobbiamo trovare Olimpia!”
“Sì, Rossana, lo faremo! Su questo davvero non possiamo più tirarci indietro, l’abbiamo fatto per troppo tempo!”
Un lampo di eccitazione negli occhi di Giorgia. “Forse io so dove.”
“Rossana incalza inquieta: “Dove è Olimpia?”
“Stavo riguardando i miei ricordi, prima che arrivaste, volevo buttarli, ma non dite niente, ho già capito che passo per stupida, avevo paura di quelle testimonianze del nostro passato, perciò volevo buttarle, e lo farò, comunque, ora, perché bisogna staccarsi dal passato, prima o poi, no? E se un giorno, così, non si decide di dare un taglio deciso… gli articoli di alcune nostre imprese; i comunicati in ciclostile; e le cartoline, sì, le vostre cartoline, butterò anche quelle: tanto, è il presente che conta, no? I ricordi se ne stiano nel cuore, gli oggetti del passato sono catene, e scusate, Dio, non so perché stia dicendo tutto questo.”
Gli sguardi partecipi e comprensivi delle amiche le danno la forza di continuare.
“Quello che voglio dire: per me è così importante esserci ritrovate, è così strano, improvvisamente il passato non è più un ricordo, è anche il presente. Sì, ritroviamo Olimpia! Forse, so anche dove. Negli stupidi ricordi del passato!”
Giorgia va di là, come per una sua idea, forse anche per riprendersi dalla propria emozione fuori dallo sguardo delle sue amiche, che ora si guardano. Quando non si sa che dire, o si vorrebbe dire altro, si parla sempre del tempo. Anche perché, le donne, raramente parlano di calcio.
“Che estate si preannuncia: fa già un caldo insopportabile.”
“Sarà una bella estate, Claudia. Ci siamo ritrovate.”
“Tu dici? Davvero pensi che noi ce la possiamo fare? La vita ci cambia, questo è banale ricordarcelo, ma anche realistico. Beh, speriamo di non litigare anche stasera, no?”
“Litigavamo sempre anche prima, no?”
“Già. Ma allora avevamo tutta una vita, in comune.”
“E ora abbiamo in comune un’idea, uno scopo: ricongiungerci con Olimpia.”
“Dovrei avere delle sue cartoline, io non butto mai nulla.”
La voce di Giorgia giunge dalla sua stanza alle orecchie delle altre due, sedute sul divano. E ora diventa un urlo entusiastico: “Eccola, sì, l’ho ritrovata, la cartolina! E’ proprio da un paesino, minuscolo.”
Le altre due scattano su dal divano, e quasi per gioco tendono a superarsi l’una con l’altra, chi arriva prima? Sono tutt’e due contemporaneamente a rimirare la foto, con inquieta curiosità. Claudia è la prima a commentare: “Sì, è proprio come ce lo descriveva: poche case, in cima alla collina.”
“Ma perché dovrebbe essere proprio là?”
“La casa in città: venduta, tanta voglia di solitudine, riposo. Cosa c’è di meglio?”
“Di meglio, Claudia?”, dubita Rossana.
“Tentiamo: tutt’al più, avremo fatto una scampagnata!”
Giorgia sigilla il dialogo, commossa dalla sua stessa determinazione: “Sono d’accordo, andiamo! Lo dobbiamo ad Olimpia, e a noi stesse.”
PARTE SECONDA: IL VIAGGIO
OVVERO ALLA RICERCA DI QUALCOSA O QUALCUNO, INCURANTI DELL’IMPOSSIBILITA’ DI RITROVARLI, CONSAPEVOLI CHE (QUEL NOI, QUEL QUALCOSA, QUELL’ALTRO) NON CI SIAMO PIU’, ESSENDO NECESSARIAMENTE INEVITABILMENTE IMPROROGABILMENTE DIVENUTI ‘ALTRO’.
L’autostrada è quasi deserta. La televisione non fa altro che parlare del grande esodo, le code, il caldo. D’accordo, caldo ce n’è parecchio, in effetti, ma traffico proprio no. Il giorno di Ferragosto, ognuno ha già raggiunto il luogo eletto, ognuno è ormai sul posto, pronto a rimpinzarsi a puntino per questa giornata speciale solo perché il calendario segna quindici agosto e se è cattolico anche: “Assunzione di Maria”. Davvero così speciale, dunque? Eppure per loro sì, oggi. Non fosse che per il fatto di ritrovarsi su quella scalcinata ‘Due Cavalli’ di Rossana, gialla per giunta, vero residuato storico, in perfetta sintonia con la cassetta dell’autoradio che spara la voce di Jimi Hendrix tra le note della sua chitarra.
“FOXY LADY.”
Elettrizza la sua musica, scalda l’atmosfera, ma è proprio necessario scaldarla oggi, il giorno di Ferragosto? Claudia continua a rinfrescarsi con fazzolettini e spruzzate del suo ‘Paco’. Ne offre a Rossana che non ne vuole, non le serve, dice mentre Claudia scuote il capo, in disaccordo. Giorgia, dal sedile posteriore, assiste al continuo pungolarsi delle due.
Ecco il benzinaio, proprio necessario, adesso, e con un bell’ autogrill a fianco: l’ occasione per sgranchirsi, ed uscire da quel fornetto. Claudia ha già il cestello pieno di roba: biscotti, dietetici naturalmente, yogurt senza grassi né zucchero, succhi di frutta al naturale, acqua minerale non gasata. Giorgia si è rifornita invece di sigarette, sta fumando più del solito oggi, e caramelle: balsamiche, sì, ma zuccherate. E’ in attesa che si liberi uno dei telefoni, vuole chiamare suo figlio.
Rossana. Rossana sta rimirando una bottiglia di whisky, di quello buono, e c’è un signore che sta rimirando lei, anzi la osserva, o la spia? Perché, ha un’aria sospetta? E’ forse la sua testa calva che richiama l’attenzione, o addirittura insospettisce? E’ un momento, una scommessa e una sfida, o forse un ritorno ai vecchi riti della ‘spesa proletaria’: Rossana prende la bottiglia e la infila nella sua sacca, continuando a sostenere lo sguardo dell’accigliato signore che apre un po’ la bocca, tra l’imbarazzo e la sorpresa, certo indeciso su quello che dovrà fare: andare da lei e imporle di mettere la bottiglia a posto; andare alla cassa e denunciarla; girare la faccia e far finta di niente. Forse è questa la sua scelta, almeno pare... ma quando lei ha raggiunto alla cassa le sue amiche, mentre Claudia sta pagando le sue cose, e lo stesso fa poi Giorgia, l’uomo è lì, dietro di lei: che fare? Tirare fuori la bottiglia e pagarla: bella fesseria, per le sue scarse finanze, di un costosissimo whisky non ha proprio bisogno. La sfida è un’altra, vedere cosa farà quell’uomo, che stupidaggine però mettersi a rischiare, e per cosa? Un puntiglio, uno scherzo...
All’interno dell’auto la musica è cambiata.
“Ma davvero hai solo musica di dieci o vent’anni fa?”
“Cara Claudia, negli ultimi tempi ho avuto poche possibilità di girare per discoteche!”
“Beh, un po’ di musica etnica, quella potevi procurartela!”
Interviene Giorgia, cantando proprio su quella musica: è un pezzo di tanti anni fa, di quando erano ragazze, assieme. Si dimenticano tante cose, i nomi degli imperatori, le poesie del Carducci e quelle di Prevert: un fiume di parole, eppure quelle delle canzoni fluiscono come un’onda, ti scorrono dentro senza fatica, a farle risorgere bastano le prime note di un accordo coinvolgente, familiare, unificante.
“Dondola, dondola, il vento la spinge, cattura le stelle per i suoi desideri.”
LE ORME, che nome strano per un gruppo musicale: ma cosa c’era di usuale in quei lontani Anni Settanta? La ricerca dell’originalità era uno stimolo continuo, una sobillazione al fare e allo strafare.
Al canto si unisce Rossana, e subito dopo anche Claudia. L’atmosfera è bella, ora: si son ritrovate forse come mai in tutti questi giorni. Ma questo tipo di clima è sempre molto perturbabile, specie quando nell’animo di chi gioisce è annidato un dubbio, un dolore, il grumo di una ferita che proprio oggi si va forse a stuzzicare, per medicarla, rimuoverla, o più masochisticamente: riaprirla. Ci pensa Rossana, stavolta, a raffreddarlo cercando invece proprio di cementarlo: “Qui ci vuole una bella bevuta. Giorgia, guarda nella mia sacca, c’è una bottiglia.”
Giorgia la prende, e appena la vede Claudia scatta su.
“Roba di marca, brava Rossana.”
“Visto? Mi adeguo!”
“Però prima non l’avevi.”
“Prima quando?”
“Dell’autogrill, hai capito benissimo!”
“Anche tu hai capito, mi sa. Allora bevi se ti va, e non rompere!”
“Ma sì, dai, per una volta rompiamo gli schemi!”, e dicendolo Giorgia attaccandosi alla bottiglia dà una prima sorsata, che Claudia subito cerca di mandargli di traverso.
“Sei tu che hai bisogno di rompere gli schemi. E io non bevo da una bottiglia rubata! Anzi, mi viene voglia di spaccartela in testa!”
“Hai speso centomila lire tra creme, deodoranti e barattolini…”
“Il deodorante è per te, te lo regalo, così impari finalmente ad usarlo!”
“Mi fai pena!”
Giorgia ancora una volta cerca di ricoprire il ruolo di paciere: “Smettetela, su, siamo qui per un motivo!”
Si guardano, è un attimo di forte intensità, di quelli da cui può scaturire una parola di troppo, quelle che poi non si dimenticano più; o magari una grossa risata; stavolta prevale quest’ultima, con Claudia che, non più riottosa, afferra la bottiglia e tracanna una sorsata di liquido, e poi sbuffa come un cavallo imbizzarrito, imitata dalle altre due.
Il paesino è là, davanti a loro sulla collina. Piccolo, arroccato, chiuso, con un piccolo lago che ne riflette l’immagine in un giorno limpido e assolato come questo. Arrivano sulla piazzetta e tutto sembra deserto. Giusto, è passata l’una, con questo sole chi va in giro adesso? Tutti a casa, persiane chiuse, anguria a fine pranzo. Per chiedere informazioni, l’unica è provare al bar: accidenti, chiuso pure quello! Da una via laterale una musica. Qualcuno, vivo, c’è! E’ un altro ingresso del bar, che dà su un giardinetto interno sistemato con poche pretese: qualche tavolinetto con le sedie di plastica, un vecchio biliardino ed un cavalluccio, di quelli col dondolio elettrico, e il rumore degli zoccoli del cavallo se è il modello super: chissà, ora è spento. All’ombra del pergolato un vecchio suona una fisarmonica, e le tre donne si incantano a guardarlo, più che ascoltarlo: è bello quel volto segnato dal tempo, dall’aria dal vento dal sole, la pelle di chi ha vissuto tanto all’aria aperta. Il cappello, in testa, nonostante il caldo, e la giacca. Chissà, forse perché oggi è festa! Lui le vede e abbozza un semplice sorriso, lieve, senza interrompersi. Dà forse, però, maggiore impulso alla sua musica che si apre ora in un motivo ritmato e coinvolgente.
“Dai papà, vieni su, smettila con quella fisarmonica.”
Scende da una scala che dà su un primo piano, una donna in grembiule, e le vede: “Scusate, il bar è chiuso.”
Claudia scuote il capo: “Ci scusi lei, non vogliamo niente, solo un’informazione.”
Una voce di bambina chiama la madre da su.
“Ora vengo, un attimo. Forza, papà, che è anche ora dell’iniezione.” Un freddo sorriso alle donne: “E’ tardi, devo tornare su.”.
“Vogliamo solo sapere se conoscete le sorelle Naldini.”
Chissà perché, alla semplice domanda di Claudia l’occhio della donna si rabbuia. Le squadra, come sospettoso: “No, non le conosciamo, vieni papà.”
“Scusi.” La donna si blocca e guarda Rossana che le ha rivolto la parola e ora prosegue: “Mi dice dov’è il bagno?”
“E’ chiuso, gliel’ho detto: il bar è chiuso!”
La donna si avvia per le scale, mentre il vecchio richiude la sua fisarmonica. Le tre stanno per uscire ma lui le richiama con un sibilo di voce: “A voi piace, la mia musica?” Le amiche sorridono all’unisono, ed è una risposta affermativa. Egli sorride, contento e fiero, avviandosi alla salita. E’ gia sul primo gradino quando si rigira ad indicare una direzione ben precisa, al di là della siepe e della rete di recinzione: “Sulla collina di fronte, la casa più in alto, col muro grigio. Credo.” Sorride tra sé e prende a salire. Chissà: forse gli è sembrata una birichinata verso la figlia, o nuora, o chissà chi è quella donna maleducata che non ama la sua bella fisarmonica!
Le tre giovani donne restano mute, immobili per qualche attimo, l’emozione che sale: ci sono, le sorelle ci sono, Olimpia e Marta esistono, vivono davvero lì. O forse ci vivevano, chissà: non sembrava molto presente, musica a parte, il vecchio.
La prima a parlare è Rossana: “Ragazze!” Le altre, attente, vogliono sentire le sue sensazioni. “Quella lì neanche mi ha voluto dire dov’è il bagno. Io devo fare la pipì.”
Decisa, combattiva e sfrontata, si accuccia sotto il pergolato.
Che bello questo punto, i violini si aprono e duettano col piano di una tale dolcezza! Ta- tatatà- tattà. Non si può stare senza musica non si potrebbe. Grigetta ti piace? Grigetta dove sei, perché scappi sempre, non mi vuoi bene? Guarda che oggi non lo faccio il giro di tutta casa per cercarti. Allora, ho guardato dappertutto, no, in quella non entro, non mi va adesso. Tara- taratà, ah, questo è il pezzo che amo di più, ma che polvere tra questi libri, ehi tu, ragnetto Giacomino, come stai? Goditela, finché Marta non ti scova!
Ora ci sono, davanti alla collina. Le case sono parecchie, almeno rispetto a quella densità abitativa, certo! Tutte grigie. E’ il colore della pietra, da queste parti, e dell’intonaco che sa di cemento. Lassù, poi, un bivio, e due stradine. Il sonoro ronzio di una falciatrice le attira: anche oggi, al lavoro.
Giorgia fa una proposta: “Perché non andiamo a chiederlo a lui?”
“Se è gentile come la signora del bar, come minimo ci tritura!”
Rossana rassicura Claudia: “No, lui è un uomo, quando vede te, sarà galante più del vecchio.”
Ecco le donne in mezzo al campo, per farsi vedere dal giovanotto in canottiera intento al lavoro nonostante il caldo. Ora gli sono vicine e lui è sorpreso a vedersele lì. Scende dall’attrezzo, molto sollecito, la faccia aperta e sorridente, la parlata decisamente indigena.
“Hai visto?”, fa Rossana a Claudia.
“Buongiorno, signorine.”
“Buongiorno a lei. Senta, saprebbe dirci dove abitano le sorelle Naldini?”
“Sorelle Naldini? Me pare de no.”
“Sicuro? Ci hanno detto che abitano lassù, in cima alla collina.”
“Ah, forse, ossia, una che se chiama con un nome del genere ce starebbe, ma io la vedo sempre sola, non so se tiene una sorella. Qualcuno però m’ha detto, l’ho sentito dì, insomma, sì, una sorella che non sta bene, e pure... boh, non lo so, ma che le cercate?”
“Siamo loro amiche: vogliamo fargli un’improvvisata.”
“Ah, beh, provate, la casa credo che è quella lassù.” Ne indica una un po’ isolata, oltre il bivio di destra. “E’ proprio bello, il posto: ha un grande giardino, e dà sul lago. Ma non so se ce stanno.”
Non è difficile individuarlo, il muro di pietra grigia, ricoperto d’edera. Poi la strada si fa ancora più stretta, un’automobile ci passa appena. Rossana si ferma prima.
“Io lascio la macchina qui. Al cancello arriviamoci a piedi”
Giorgia non è mai sicura di niente: ”Sarà proprio questa?”
“Io non ne vedo altre”, la rassicura Claudia.
“Ma sei sicura?”
“E che ne so: perché dovrei sempre sapere tutto prima di voi?”
Rossana è sempre pronta a ironizzare sull’altra: “Forse perché sei un notaio! Su, l’ultima casa sulla collina, tutto corrisponde.”
“Ehi, sentite la musica?!”
Le note di Beethoven giungono alle loro orecchie.
Claudia accosta il viso contro il cancello. Cerca una fessura, tenta di vedere qualcosa dentro. Si sposta ai lati, nello spazio tra muro e telaio: “E’ grande, e non vedo nessuno.”
Giorgia si guarda attorno ansiosa: “Non vedo un campanello.”
Rossana decide di usare la voce, e chiama il nome dell’amica: “Olimpia, Olimpia siamo noi. Olimpiaaa. Noi tre!”
“Sì, siamo noi, ci sei? Dai, Claudia, entriamo”
“Ecco, questo è il cancello: entra tu, Giorgia, che vuoi, perché devi sempre mandare me in avanscoperta?”
Ma Giorgia non si muove e anche stavolta Claudia si decide a prendere l’iniziativa. Prova a spingere, e il cancello si apre.
“E’ permesso? Si può?”
“Aspetta, Claudia, prima assicuriamoci che siano loro.”
“Ma se tutto coincide!”
“Sembra abbandonato.” Anche Rossana è come intimorita: “Le persiane tutte chiuse.”
Giorgia indica il registratore sul tavolo: “Però c’è la musica.”
Il giardino appare coi forti contrasti di luce ed ombra così naturali nel giorno di Ferragosto. La loro attenzione è attratta dalla strana armonia che regna tra quelle piante non troppo curate, una natura ,se non selvaggia, almeno lasciata libera di esprimersi, e quella casa così realmente di campagna, senza infingimenti di lusso esibizionistico ma comunque solida, concreta, coi segni del tempo pronti ad essere cancellati da una semplice riverniciata, l’intervento di un giardiniere a togliere un po’ di verde, specie i rami di quell’abete che, da un lato, sembra vogliano entrare dritti dentro casa. Quel senso di bellezza semplice, se non povera. Dopo i primi istanti, le loro considerazioni vanno ad individuare quanto di riconoscibile ci sia dei tratti delle sorelle.
Rossana si accosta all’amaca e quasi la accarezza con le dita: “E’ sempre stata la sua passione, sono sicura che è la sua.”
Giorgia con occhio da investigatore esamina il registratore: “Questa cassetta è stata inserita da massimo dieci minuti.”
La considerazione è rassicurante o inquietante? Le donne si guardano attorno, le persiane tutte socchiuse potrebbero nascondere tanti occhi, lì, a spiarle.
Claudia spezza questa tensione, spingendosi verso un angolo della casa: “Che giardino enorme qui dietro. Forse sono laggiù.” Prende a chiamare forte: “Olimpia, Olimpia!”
Giorgia la raggiunge e fa lo stesso: “Olimpia! Marta!”
Rossana invece è più attratta dalla casa, la guarda come se volesse attraversarne i muri, vedervi dentro. Si accosta a una persiana e chiama: “Olimpia, dove sei?”
Queste voci queste voci queste voci: perché sono qui? Rossana, dolce Rossana. Giorgia, Claudia. Quanto mi siete mancate! Allora perché non ve ne andate, vi prego: più restate più sento la vostra mancanza, l’assenza degli anni trascorsi, la mia solitudine e la vostra, e quella di Marta, di lui, di tutto il mondo dell’universo di Dio! Via via via lontano dov’eravate non voglio saperlo mi basta il vostro ricordo mi basta quello: cosa potremmo dirci ora dopo tutti questi anni dopo dopo dopo!?!
Giorgia scuote il capo: “Torniamo indietro. Aspettiamo fuori, ci sediamo in auto, qualcuno arriverà.”
Claudia è come sempre decisa: “Che dici? Vuoi che non sia casa loro?”
Rossana raccoglie un libro poggiato in terra, vicino all’amaca: “Marguerite Duras! Sono sicura che è lei!”
Le si accosta Claudia: “Che ne sappiamo? La Duras vende libri in tutto il mondo, e l’amaca, in un giardino così, non è una prova!”
Ma l’altra trattiene tra le mani quel volume, quasi a valutarne un possibile residuo, un’aura, un fluido lasciato dalla sua amica. Ora lo apre e si sofferma su un brano: “Sottolineato a matita, lo faceva sempre.” Prende a leggere alcune parole evidenziate: “Tutta la materialità della donna, tutto il suo fare per gli altri, per la felicità degli altri che diventa la sua felicità.” Gira una pagina, e continua: “La casa, quel rapporto esclusivo e viscerale che ha la donna con la sua ‘tana’.”
No, Rossana, ti prego lascia stare il libro, perché? E’ il mio libro, è la mia matita, è la mia sottolineatura: perché volete rientrare così nel mio mondo? Rientrare. Eppure non siete mai uscite; ma così, com’è stato finora, nel ricordo è più bello, almeno si prova a farlo essere più bello, a tenere solo le parti che vogliamo. Oh, le foto, le foto sono lì, non devono trovarle, le dovevo rientrare, e poi se torna Marta? Perché non vanno via?!
“Bene, adesso che la recita è terminata...”
“Claudia! Devi proprio fare la protagonista assoluta, anche in un giorno come questo?”
“Volevo solo dirti, Rossana, che bisogna prendere una decisione: che fare?”
”Non chiederlo a me, lo sai che non ero io quella a prendere la decisioni, nel gruppo”
“Nel gruppo?! E cosa c’entra adesso il gruppo?!”
“Dicevo così per dire.”
“Per dire? Qui non c’è più nessun gruppo: siamo solo tre persone che vogliono ritrovarne una quarta, dopo anni che non l’hanno più vista, per sapere che fine ha fatto, dopo quello che ha passato, e se ha bisogno d’aiuto.”
Rossana scuote il capo: ”Già, ricordarsene dopo dieci anni!”
Anche la testa di Giorgia fa un movimento analogo, ma il senso è diverso, così come le sue parole: “Eh, forse non è il caso, chissà.”
“Dico: ma siete pazze!?” Claudia, quasi incredula, apostrofa le altre due: “Ora, dico: ora, vi viene in mente che, forse, non dovevamo? Ora che siamo qui?!”,
Rossana la interrompe molto decisa: “Assolutamente no: io rimpiango solo i dieci anni che non l’abbiamo fatto!”
Giorgia corregge il tiro: “Ma certo, sì, anch’io… è solo, ragazze, che mi è presa una tale paura! Sto in pena per il mio Lorenzino, adesso, ci credete, ho come una brutta sensazione! E quest’erba alta, gli animali, con lui che è lì in montagna.” Si avvede dello sguardo nervoso, esasperato, quasi cattivo di Claudia e Rossana, e scrolla il capo: “Oh sì, che scema, scusate!”
Eccole eccole eccole come sempre discussioni e poi scuse e riappacificazioni e di nuovo liti, non si può, a che serve la gente, l’altra gente, non è più giusto stare qui? Ah, i miei dubbi passano al solo risentirle: e loro sono le mie amiche, gli voglio bene, mi vogliono bene, sono le migliori, e l’altra gente è peggio, sta sempre a parlare commentare litigare: ma a che serve? Qui, qui, io resto qui: nascondersi… come quella volta, come tanti anni fa, le nostre facce nell’ombra, allora eravamo tutte assieme schiacciate contro quel muro dell’università, nascoste trattenendo il respiro, i poliziotti che ci cercavano coi loro manganelli in mano. Ora qui è sicuro: dietro questa tenda, in questa stanza, in questa casa, in questo giardino.
“Allora, proviamo ad entrare?”
“A che scopo, Claudia? Non c’è nessuno. Se ci fossero avrebbero risposto, e se non ci sono non possiamo. Teniamo anche presente che la certezza che sia casa loro, o comunque ancora casa loro, non l’abbiamo!”
“Giorgia, sei tutto un problema! Che dici? Hanno venduto casa, adesso il nuovo proprietario entra da quel cancello col fucile e ci impallina come ladre di polli! E’ questo che temi?”
Nessuna sorride nessuna risponde. Lei stessa cambia tono: ”Mi sa proprio che dovremmo andarcene.” Si accomoda su una delle sedie attorno al tavolo.
Giorgia concorda, con un cenno del capo: “Credo proprio che sarebbe meglio.” Però, anche lei va a sedersi.
Rossana si accomoda sull’amaca. Prende a dondolarsi piano, piano, leggendo dal libro che ancora tiene in mano.
Claudia scruta la casa: “Voi, come la immaginavate? Io diversa.”
“Anch’io ci ho pensato molto. Me l’aspettavo più curata. Anche così è bella, ma è per via di Marta, se davvero è qui: lei, sempre così precisina, Marta, chissà...” Giorgia fissa l’amica negli occhi: “Tu, Claudia, hai paura?”
Guardinga, insincera, lei risponde: “Di cosa?”
“Rivederla.”
“E tu, Giorgia?”
“Io...”
“Ormai, troppi anni. Nessuno sa, in fondo che ne sa, lei: non ha visto nulla lei, può solo supporre, e non si manda in galera la gente con le supposizioni.” Claudia stessa non è convinta delle parole che pronuncia, sa che l’agitazione è qualcosa di più profondo, meno calcolabile del timore di un’indagine, di un processo, perfino di un arresto. Si alza e si avvicina alla casa, come per scacciare le sue stesse parole. “La casa non sta poi così male; chissà, piuttosto, come se la passano economicamente.”
“Beh, stavano bene, non mi sembra che da quel lato avessero problemi. Ma questa casa ha un aspetto tale, non lo so, forse quest’erba così alta, può essere piena di animali; sarà che io penso sempre a Lorenzino: avrei paura che giocase in quest’erba alta, e se adesso penso che è in montagna con quello spericolato di suo padre. Basta un attimo di distrazione: il morso di una vipera, in mezz’ora sei spacciato!”
“E io lo sarò in dieci minuti se resto ancora a sentirti: che palle con questo bambino, sempre questo Lorenzino, avrai fatto dieci telefonate. Bella idea, quella di lasciare a casa tutto il resto, farne a meno, per un giorno: prendercelo tutto per noi, e per il nostro bel fantasma. E’ così impossibile, staccare un po’, per una volta? Ma ti ho vista, sai, all’autogrill, al telefono, col tuo carico di monetine! E chi cerchi, cazzo, se stanno in montagna, nell’erba come dici tu: che se lo portano appresso, il telefono?! ” Si blocca, già pentita del suo sfogo d’ira, e guarda verso Rossana che ha smesso di leggere e la osserva senza lasciare trapelare il suo pensiero. “Scusate. Scusami Giorgia, sarà il caldo.”
“Non preoccuparti, hai solo risposto alla mia domanda iniziale: perché non confessarcelo, almeno tra noi, sì: abbiamo paura. Paura paura paura!”
Rossana continua a tacere, gli occhi tornano sul libro.
Paura paura paura cos’è la paura? Quel senso di vuoto che ti prende allo stomaco mentre il cuore sembra improvvisamente fermarsi strizzato dalla mano di un gigante per subito poi liberarsi e battere battere battere sempre più frenetico? No, è il vuoto, qualcosa che non c’è più, che non potrai più riavere, una musica che non potrai più sentire, mai più, un calore che non riavrai, che ti sottrarrà la pace, il respiro tranquillo, forse anche il sonno, sì, il sonno. Lasciandoti in balia dei tuoi sogni ad occhi aperti, delle tue ansie, incubi. Ho paura della notte!
Si è creato un pesante silenzio, il sentimento nominato e ribadito da Giorgia ha schiacciato la possibilità di quelle voci. Rossana non vuole accettarlo: farsi sconfiggere dalla paura, proprio ora, no! Con movimento risoluto, si alza dall’amaca ed entra in casa. Apre la persiana della portafinestra sotto lo sguardo perplesso delle altre due. Un attimo di ripensamento lo ha anche lei, ma lo supera. Entra. Non si può più aspettare: cosa?! Bisogna sapere, cercare la verità, anche quando non sia rassicurante, serena, quella che si vorrebbe.
“Così, questa è la casa di Olimpia? Com’è tutto ordinato qui dentro, com’è tutto diverso dalla trascuratezza dell’esterno. Centrini ricamati, vasi di fiori secchi, i mobili antichi, no, vecchi, com’è più giusto per una casa di campagna, però non c’è stile: forse alcuni sono gli scarti della casa di città. Quella poltrona, per esempio. E qui è una specie di tinello, e di là...”
Queste riflessioni s’interrompono in un sussulto, quasi un reale sobbalzo fisico: lo sguardo di Rossana si accende nel vedere quel ritratto, la prova di essere nella sua casa, nella loro casa. Ma tanto più, visto che è proprio la loro casa, cosa ci fa quel ritratto?! Lì, proprio lì, in quella casa?! Afferra il portaritratti ed esce, tremante. Le due la osservano, ogni loro senso entra in allarme. Non le rassicura il gesto di Rossana che getta in terra l’oggetto, con rabbia, odio, dolore: qual è l’emozione dominante, cos’è che traspare dal suo volto? Non c’è tempo per studiarla. Quei quattro occhi vanno a stanare l’altro volto, quello che giace ormai in terra, solcato dalla linea del vetro spezzato. Il viso di un giovane sorridente, bello in verità, con appena una punta di arroganza nello sguardo, forse la consapevolezza del proprio aspetto... un’apparizione che getta le due nello stesso spaesamento dell’altra, che ora riesce a blaterare: “Non è possibile. Alessandro, la sua foto, proprio in questa casa!” Quando ad un’espressione di grosso smarrimento se ne sovrappone un’altra, molto più forte, e dolorosa, cos’è che può cambiare nei tratti del viso, un viso i cui nervi siano già tirati, tesi, contratti? Forse il lampo che scaturisce ora in quei sei occhi che vanno a fissarsi sull’immagine che appare -viva e concreta, questa! - di fronte a loro, sotto l’abaco della portafinestra che Rossana aveva aperto ma non richiuso. E’ lei la persona per cui sono venute fin qui. Appare solo ora, silenziosa, come un fantasma. Si china verso l’oggetto in terra, a raccoglierlo.
Le cicale non smettono di frinire.
Non entra tanto spesso, Marta, nel bar del paese. Ma oggi è Ferragosto, un dolce ci vuole: è la tradizione, e lei ci tiene alle tradizioni.
“E certo, per la festa abbiamo fatto un po’ di cose buone: abbiamo visite, oggi, eh, signora Naldini?”
“No, veramente no”
“Ah, pensavo: siccome son passate delle signorine, hanno chiesto di lei, io non ho detto niente, anche perché stavo un po’ urtata con mio padre, e mi sembravano, non lo so, un po’ strane.”
Nessun bisogno di far domande, chiedere dettagli o descrizioni; Marta sa cosa deve fare, ora: “Scusi, le ho fatto anche riaprire… devo andare.” Sì, il pensiero di Marta è: rientrare a casa, subito. Il perché? Sono loro, ne è sicura, le ‘strane’!
“E la torta? Gliela metto da parte?”
“Fa niente, grazie”
Esce dal bar e solo quando siede nella propria auto si ferma un istante. Due bei respiri lunghi, lenti. Riprendere fiato, calmarsi, placare l’ansia, la curiosità, la rabbia: tutto il coacervo di sensazioni che si sta affacciando con troppa prepotenza, anche se prevedibile. Combattere il caldo, l’afa che oggi è arrivata fino in collina... oggi, oggi che tutto arriva. Tutto!
PARTE TERZA: LE QUATTRO STREGHE
OVVERO COME I RICORDI SIANO UNA FOTOGRAFIA CHE MENTRE SEMBRA MOSTRARCI LE REALTA’ DI QUANTO E’
IMPRESSO LASCIA ESCLUSO TUTTO CIO’ CHE LE E’ ATTORNO, VICINO, LONTANO, PIU’ IN LA’ (DANDOCI, QUESTO E’ IL PEGGIO, LA MALAUGURATA UTOPIA DI AVER FERMATO UN ATTIMO DI VERITA’).
Pensieri, sensazioni, considerazioni; vibrazioni comuni, nell’aria: “Come può essere? Anche a distanza di anni, non eri tu, non eravate voi, non eravamo noi che dormivamo insieme, cantavamo sullo stesso palco, ridevamo e gioivamo e piangevamo insieme?” Ed ora? Tutto così lontano?
“Olimpia... eri qui!”
Non è facile rompere quel silenzio, ed è curioso che a farlo sia proprio Giorgia: di solito, non è lei la più intraprendente anche se, stavolta, per una volta, non è ricominciato tutto da lei? Difatti è ancora lei che continua: “Sei stata tutto il tempo dentro casa, dietro la persiana magari, a sentirci, senza mostrarti, né dire niente.”
Claudia però è quella che ha il coraggio di porre subito la domanda che agita le loro menti: “Ci odi a tal punto?”
Olimpia è ancora accovacciata, solleva il capo, la guarda. Lievemente, scuote il capo a rassicurarla: un muto no.
“Davvero?”
“Voi siete le mie amiche. Le mie grandi amiche”.
Reclina di nuovo il capo. Tira a sé il portaritratti, come stringendolo al petto; forse un gesto affettuoso, forse la necessità di porlo al riparo, salvaguardarlo, dagli occhi che lo hanno guardato con tanto disprezzo.
Giorgia riprende: “Come stai? Ti abbiamo cercata tanto.”
“Ma se vuoi ce ne andiamo.” Strane, le prime parole di Rossana a Olimpia: veramente disposta a mollarla lì, in mezzo a cosa?
Claudia cerca ora solo un contatto. Ripete il suo nome, come un mantra: “Olimpia. Olimpia. Olimpia.”
Dal basso Olimpia le guarda, ancora inchinata. Claudia e Giorgia assumono la sua stessa posizione, ora sono vicinissime: “Ma no, sì, non so cosa, sono così… felice.”
Un lampo nei suoi occhi, come un’illuminazione: lo scaturire di un’idea, forse una menzogna, o una scintilla appena scoccata? Comunque sia non è rassicurante quella parola: ‘felice’, non detta da lei, non in quella circostanza. Anzi, lo sconcerto si acuisce nelle tre donne. Ora Olimpia si tocca la testa, i capelli, abbozza un sorriso. Le sta prendendo in giro? “Felice, ecco: sono proprio felice!” Come d’istinto, si risolleva e va ad abbracciare la più lontana, l’unica rimasta in piedi. “Rossana, come stai?” Poi si gira verso le altre due, forse pentita dall’aver manifestato così platealmente un sentimento che certo non è in lei così univoco e definito, o forse imbarazzata dall’aver accordato una troppo evidente predilezione per Rossana. “Giorgia. Claudia.” Abbracci altrettanto carichi, cui Claudia replica cogliendo al volo l’occasione per cercare di allentare la tensione: la stringe forte, forte, e fa con lei un giro su se stessa, come il ritrovarsi di un genitore col suo bambino.
“Vola vola vola il nostro uccellino romantico che vive ritirato nel suo bosco incantato!”
E infatti, quando si staccano, lei la addita come si fa con un bambino. “Ti abbiamo cercata per mari e per monti, invece eri in collina!”
Ride, e così fa anche Giorgia, e poi Rossana, e infine Olimpia stessa che mormora sommessa, rivolgendosi a tutte timidamente: “Avete ragione, sono scomparsa.” Vorrebbe dire qualcos’altro, o è solo una speranza delle altre tre? Nessuna parla, poi è come se ad Olimpia venisse in mente qualcosa: “Oh, scusate.” Ora fa un po’ fatica a proseguire:
“Sedete. Vado a prendervi qualcosa da bere.”
“Bene, ti accompagno”
Il rifiuto all’offerta di Claudia è netto: “No, riesco subito, prometto.”
Rientra in casa, alle tre non resta che scambiarsi sguardi perplessi.
Giorgia però non regge, gli occhi si riempiono di lacrime: “Non ce la faccio. Ma com’è possibile? E’ stata tutto questo tempo a sentirci, là, era là dentro, zitta: a spiarci!”
“Là dentro”, ripete Claudia andando verso la persiana che ora si richiude quasi di fronte a lei.
Giorgia prosegue: “Ma cos’ha? Credete che sia?” Si tocca il capo come a segnalare un suo malessere, o più probabilmente quello che attribuisce ad Olimpia.
“Schhh”, la ferma Claudia: “E’ solo l’emozione, vive qui da troppo tempo, fatica a parlarci, deve solo riprendersi.”
“Proprio non se l’aspettava di vederci.”
“Ma cosa fa adesso? Perché non riesce?”
“Forse non dovremmo lasciarla sola.”
Ma nessuna si muove. Rossana, poi, non ha aperto più bocca.
Il vassoio tre bicchieri qualcosa da mangiare? No. Una spremuta un succo di frutta tanta acqua solo acqua quando è caldo si ha sete quando si ha sete è l’acqua che ci disseta oggi è un deserto qui dentro e qui fuori ci vuole acqua come in un’oasi. Oasi nel deserto. Raggiungerla trovarla sperdeisi.
Claudia guarda l’orologio: “Tra un minuto esatto, anzi no, due, massimo due: entriamo! Sì, due minuti!”
Ma anche per un lasso così breve di tempo, quel silenzio è insopportabile. Bisogna dire qualcosa, anche la più scontata e banale: “Bello. Proprio bello qui.”
Giorgia la segue: “Sì, e non c’è quel caldo della città...” Guarda l’orologio: “Le dodici e mezza.” Cerca di rilassarsi, si lascia sprofondare nell’amaca.
Su questo movimento si ravviva Rossana: “Quella è l’amaca di Olimpia: ti stai sedendo sul suo libro!”
Giorgia se n’è già accorta, la copertina punge: “Ahi!” Prende il libro e lo apre: “Avevi ragione tu: era proprio il suo, lo stava leggendo lei, o
riguardando, chissà.” Richiude il libro. “Quanta pace. Troppa. A volte, anche la pace fa paura. Il silenzio. Claudia, riaccendi la musica?”
Claudia si accosta al registratore, e lo riaccende. Rossana subito ne abbassa il volume: “Piano, siamo qui per parlare, non è una gita in campagna”.
Questo no questo giallo oppure questo bianco ci vuole il bianco colore neutro meno domande meno colore meno tutto, e i capelli così non vanno, che me ne importa dei capelli, però loro no, loro mi devono vedere bella, devono pensare che sia tutto a posto, che questo sia veramente il rifugio incantato, che sia il luogo dell’armonia e della serenità. Mi devono credere! Sì, ci devono credere, almeno loro.
Il silenzio perdura; nessuna è entrata allo scadere dei due minuti. Il ritorno di Olimpia è provvidenziale. La prima cosa che viene da dire, la più scontata, e inutile:
“Ma perché ti sei cambiata?”
“Non so, così.”
Incalza Giorgia, forse con eccessiva ansia: “Come stai? Stai bene?”.
Ma Olimpia la rassicura, con un tenero sorriso.
“Sai che ti abbiamo sempre pensata tanto? Ci siamo perse di vista anche noi, non dico solo Rossana che era sempre fuori, anche con Claudia, seppure sapevo che era tornata in città. Ma qualcosa era restato, anche se eravamo lontane; e tu sei sempre rimasta con noi.” E’ scesa dall’amaca, Giorgia, ed ora le accarezza i capelli: “Sempre uguale, tu, Olimpia… stai bene, bellissima.”
Claudia vuole dare il suo contributo: “E noi come ci trovi, eh: siamo diverse?” Olimpia non risponde, guarda in basso. “Dai, lo so, dimmelo pure che sono cambiata, io: eccome!” Cerca una chiave per aprire qualche spiraglio, forse un po’ d’ironia. “Io, dieci anni fa non avrei accettato che un uomo mi offrisse un cinema; oggi, guai se non mi invita nel migliore ristorante!”
Giorgia replica, ironica e vivace: “Ma poi sei tu che vuoi pagare il conto!”
Sorridono. Anche Olimpia. Rossana fa lo stesso, solo come riflesso del volto della sua amica. Giorgia si sente rincuorata, e continua: “Siamo cambiate, per forza: proprio perché non è cambiato niente di quello che sognavamo.”
Rossana si versa da bere. Beve come fosse alcool, o qualcos’altro che infonde coraggio. Interrompe il silenzio con entusiasmo un po’ stonato: “Eravamo folli: folli d’amore l’una per l’altra. Unite, sempre, inseparabili: le quattro streghe!”
Forse ha detto qualcosa di troppo, Claudia e Giorgia si guardano per un attimo poi corrono cogli occhi a cercare una reazione di Olimpia, che invece non avviene.
Così, Giorgia riprende, quasi a completare e giustificare il discorso dell’amica: “Sono stati begli anni, è stata la nostra gioventù, giusto o sbagliato che fosse.”
Claudia sembra voler troncare l’argomento: “Né giusto né sbagliato: era così.”
Rossana non sembra voler desistere: forse un tentativo di coinvolgere, risvegliare, provocare Olimpia?! “Già, ma ve lo ricordate quel giorno, nascoste sul tetto, i poliziotti con le scale che salivano per venirci a prendere?”
Ancora una volta le menti delle donne, stavolta tutte e quattro, rivivono un’immagine di circa quattromila giorni prima. Le scale dell’università salite a perdifiato, tre gradini ogni passo, fino alla terrazza della facoltà, una buona idea per nascondersi, infatti nessuno era venuto a cercarle fino alla folle idea di lanciare giù una tegola, lontano dal gruppo, non per colpire, ma per provocare (come andava di moda questo verbo), far capire che erano più furbe, erano sfuggite agli aguzzini, il futuro era loro: la forza, il coraggio di cento maschi, forse molto di più. E ‘fanculo i manganelli dei poliziotti, le loro intimazioni e le loro ingiurie!
Claudia riporta il discorso al presente: “Come stai, Olimpia? Non ci aspettavamo che ci lasciassi così.”
Giorgia applica maggiore dolcezza: “Non vogliamo certo rimproverarti. Vieni qui sulla tua amaca, mettiti comoda.”
Rossana prende Olimpia per un braccio, dolcemente, vuole essere lei a guidarla verso quel comodo giaciglio: “Te ne stavi proprio qui quando siamo arrivate, vero?”
Olimpia la guarda con affetto, forse riconoscenza: si lascia portare. Rossana la dondola, mugolando come una nenia quella dolce, raffinata, metaforica canzone di tanti anni fa. Una delle ‘loro’ canzoni:
“Dondola dondola, il vento la spinge, cattura le stelle per i suoi desideri.”
Claudia riprende: “Beh, se non ti va di parlare, non importa. Abbiamo tanto da dirti noi: da dove cominciamo?”
Giorgia scherza: “C’era una volta... anzi no: c’erano quattro belle principessine.”
Rossana corregge: “Tre, dì pure tre!”
“Oh, scusa: dimenticavo quanto tenevi già allora al ruolo di poverella. Ma non preoccuparti, è solo una favola: neanche noi siamo mai state principesse!”
“Però ve lo facevano credere, in casa.”
Anche Claudia vuol dire la sua. Evidentemente, è un vecchio argomento: “Per fortuna sei arrivata tu ad aprirci gli occhi: proletariato DOC con marchio di garanzia.”
Olimpia finalmente parla, e le fa sentire ancor più in imbarazzo: “Non litigate: dovevate raccontarmi di voi.”
Già, che sceme, mettersi a prendersi in giro, a punzecchiarsi, proprio oggi!
“Comincio io? Sì, dal basso, figurati: sposata, un figlio, separata da tre anni, casalinga. Delusa?”
“E perché?” Olimpia abbozza anche un sorriso, ma pieno di imbarazzo.
“Beh, sai, Rossana fa tante cose, ha già girato mezzo mondo, facendo del bene, vorrei saperlo fare anch’io, ma quando hai un figlio, sei legata, anzi: fregata!”
Olimpia ha come uno strano sussulto. Prende a spingersi forte sull’amaca. Le tre si guardano sorprese, quasi in allarme.
Giorgia non sa come continuare. Prova con una frase spiritosa: “Claudia invece... senti cosa hanno scritto su una rivista: ‘Brillante esempio di giovane donna di successo’. La nostra Claudia, forte, no?”
Stavolta è Rossana a non saper resistere alla battuta pungente: “Si è guadagnata il rispetto degli uomini, perché si comporta esattamente come loro!”
Con un gesto seccato Claudia la interrompe e si accosta all’amaca: “Tu, Olimpia, vogliamo sapere di te, prima di tutto come stai, poi come passi il tuo tempo qui, cosa fai.”
Solleva un braccio, Olimpia, ed indica proprio sul lauro sopra di loro un nido:
“Avete mai osservato costruire un nido? Richiede tempo, dedizione, abilità. Gli uccelli, non possono comperarli bell’e fatti!”
Un risolino. Poi si alza e va e sedere sull’erba, sfiorandola con le mani nell’accomodarsi come se stesse sistemandosi su un comodo piumone. Poi si china a scrutare il terreno, si pone carponi finché si blocca, scrutando il suolo con attenzione: “Vedete? E’ un formicaio. Anche loro, le formiche, faticano tanto, a farli.” Sembra una sana lezione di ecologia, ma in quel contesto ha qualcosa di più inquietante. “E pensare, poi, basta così poco, per noi, a distruggerla!” Con la mano, lentamente, scivola sul formicaio demolendone tutta la parte sporgente; come un bambino che distrugge un castello di sabbia sulla riva del mare. “Guardate: come impazzite!” Eccoli lì, piccoli insetti in agitazione, scappano corrono arrivano scambiandosi informazioni e messaggi - così c’informano, almeno, gli entomologi - sotto gli occhi delle donne.
Rossana siede accanto ad Olimpia, accostandole il proprio viso, intenta a scrutare assieme quel piccolo terremoto: un gesto di simpatia, vicinanza, solidarietà che esclude le domande che agitano le loro menti che, perplesse, si interrogano sulla sanità mentale dell’amica; con, però, un dubbio: e se stesse semplicemente prendendole in giro? Ora le due amiche sdraiate in terra offrono un quadro di solidarietà, forse il primo vero momento di ritrovato affetto: una possibilità d’intesa? Olimpia subito si rialza, ed entra in casa, aprendo e richiudendo la persiana.
Rossana non demorde: dopo qualche istante, decide di seguirla. L’imposta è solo accostata, può procedere.
Lei già conosce l’interno della casa, ossia: la prima stanza, quella dov’è già entrata e dove ha scoperto quell’oggetto così inatteso, quel portaritratti che ora è di nuovo lì, sul mobile, ma col vetro spezzato. Olimpia dov’è? Sta per chiamarla ma si trattiene: ecco l’occasione per cercare di capire, conoscere qualcosa in più sullo stato attuale dell’amica. C’è un ordine maniacale, la prima cosa che salta agli occhi: ma questo è opera di Marta, così giudica Rossana. Girando verso sinistra le appare la cucina, coi tipici tocchi di una casa di campagna: barattoli, posate di legno, taglieri, tutto disposto in ordine studiato e perfetto; e poco più in là altri barattoli, scatole, e poi tanti, troppi flaconi di medicinali. Rossana sta per andare a guardarli, scoprirne le etichette, magari son solo vitamine, integratori; ma una strana sensazione di timore la fa ritrarre. Le seccherebbe troppo venire scovata da Olimpia in quell’atteggiamento quasi da spia, in fondo lei sta solo cercando la sua amica. Riprende la via del corridoio, la chiama, ma così piano che certamente non vuol essere sentita, per poter girare ancora, attraverso il corridoio, in fondo al quale c’è la scala. Salire? Sì, piano piano, un gradino alla volta. Sul pianerottolo superiore ecco tre porte, una sola è socchiusa: la camera di Olimpia! La riconosce al primo sguardo che ne coglie l’interno: oggetti, foto, ma soprattutto quel disordine, quell’accumulo di cose e ricordi impensabile per la stanza di Marta. Rossana entra, piano piano, sussurrando un ‘permesso’ tra le labbra, e subito coglie un segno dell’agitazione di Olimpia in questa giornata così insolita anche per lei: vestiti semplici sparpagliati in terra come avesse voluto provarli tutti, in fretta, prima di decidersi a ridiscendere da loro, dalle sue amiche. Ne raccoglie uno a caso e lo accosta al viso, con tenerezza ne sente la consistenza, o forse il profumo, le tracce di lei, ma eccola la prova certa che sia la sua stanza: la foto ingigantita di loro quattro, in bianco e nero.
Quanto tempo fa? Tremilaseicentocinquanta giorni, sì: l’aula era sporca, piena di carta strappata, bombolette spray abbandonate dopo aver lasciato segni evidenti sui muri già coperti di precedenti scritte. Ma là fuori è diverso, la luna risplende placida come sempre, incurante delle urla che ancora giungono da fuori, o dalle note di una chitarra che nell’aula a fianco manda le note di una ballata in voga di Francesco Guccini. Loro quattro dormono vicine, Olimpia e Rossana oltre al giorno stavolta condividono anche la notte, nello stesso sacco a pelo. Olimpia è abbandonata nel sonno, Rossana invece apre gli occhi e piano piano, attenta a non svegliarla, appoggia le labbra su quelle di lei.
Giornata di ricordi ma che non lascia tempo per essi. Dalla stanza vicina provengono suoni, sussurri, la voce di Olimpia, frammenti di frasi a bassa voce, come un mormorio rivolto ad un bambino. Rossana s’accosta alla porta: eccola ancora a spiare, anche se non vorrebbe, controvoglia, allora perché?! Colta da un brivido più di disagio o timore che di vergogna, si ritrae: due passi, indietro, a distanziarsi da qualcosa che non conosce ancora ma che già la turba.
Marta è giunta in prossimità di casa sua. Trepidante, non attende che una conferma. Eccola qui, l’auto forestiera: la ‘Due Cavalli’ gialla, come non riconoscerla, proprio la loro, sì. Apre uno sportello e siede sul sedile accanto a quello del guidatore. Pensa, anche lei ricorda, negli occhi un’angoscia profonda, nella carne la voglia di rientrare in casa, e vederle. Rivederle, finalmente: loro!
Rossana si sveglia dal suo inquieto torpore e scende rumorosamente le scale, come fuggendo. E’ giunta all’ultimo gradino, sente una voce, la stessa voce di poco fa, ma stavolta è nitida, chiara, e chiama il suo nome; allora si ferma, si gira: in cima alle scale è affacciata Olimpia, che le
sorride ma la guarda con occhi indagatori, a chiedersi cosa l’altra abbia potuto scoprire di lei. Ma Rossana non ha capito niente, visto che la prima domanda che le pone è proprio quella che Olimpia non vorrebbe, la più imbarazzante; ma al dunque è la più rassicurante, la prova che non sa nulla.
“Olimpia, ti ho sentito parlare. Chi cè di là? Marta? Non sta bene?”
Scuote subito il capo, l’altra, negando: “No, non c’è nessuno, chi dovrebbe esserci?”
Tanto imbarazzo non rassicura, e Rossana ama andare a fondo nelle cose, non si è mai tirata indietro. Avanza dunque sulle scale : “Beh, allora non ti spiace se guardo. Mi piace vedere dove sei. La tua casa.”
Olimpia si pone dinanzi alla porta con tale decisione che a Rossana, giunta nuovamente sul pianerottolo, non resta che tentare una battuta: “Dai, non verrai a dirmi che è troppo in disordine...” Perché una vecchia amica, anche dopo dieci anni, non è facile tenerla a bada: “Olimpia, ti prego, dimmi chi c’è, sono tua amica, voglio aiutarti.”
“Aiutarmi? Per cosa? C’è... un b… ba…bn.”
Cosa? Talmente sottovoce ha pronunciato l’ultima parola, così trattenuta tra le sue labbra.
“Cos’hai detto?”
Sta per ripetere, guarda verso il fondo della scala e vede sopraggiungere Claudia e Giorgia. Adesso quasi urla: “Un bambino!”.
Il silenzio dura solo qualche attimo.
“Un bambino? Davvero? Ma è stupendo!”
All’entusiasmo di Giorgia, Claudia sovrappone un po’ di raziocinio, e SCIAFF, la sua domanda è uno schiaffo, forte, sul viso, di quelli che lasciano intimoriti e inebetiti per qualche secondo, incapaci di comprendere cosa sia successo, prima ancora che il dolore compaia attraverso il rossore della guancia; e non è servita alcuna azione, solo queste poche parole:
“Di chi è il bambino?”
Un breve silenzio, appesantito da un solo insopportabile pensiero moltiplicato per tre.
Incalza Giorgia: “E’ tuo?”
Ad occhi bassi, Olimpia muove il capo lentamente, un piccolo movimento che cresce fino a farle scuotere più volte la testa in avanti, in senso affermativo. Ora alza la testa e sembra aver acquistato padronanza: “Sì, proprio così, un bambino, ed è mio!”
Giorgia non sa trattenersi, sale quei gradini e, non ancora raggiunto il pianerottolo, le si accoccola davanti: “Ma è bellissimo! E non ci hai fatto sapere nulla: faccelo vedere!”
“Hai un figlio?”
La voce di Rossana può sembrare pregna di delusione; in realtà un pensiero si sta facendo largo in lei, non solo in lei.
E’ Claudia a trovare per prima il coraggio di porre altre domande: “Quanti anni ha?”
Riabbassa di nuovo il capo Olimpia. La voce è un fievole sussurro: “Nove.”
“Nove?!?”
E’ quasi un coro. Perché in realtà le voci sono solo interne alle tre. Nessuna dice nulla. Giorgia istintivamente si solleva e la abbraccia.
“Smettila, anche tu, a farmi da balia!”
Olimpia si stacca da Giorgia e prende lentissimamente a scendere le scale: “Dai, andiamo in giardino, perché non vieni a dondolarmi? Voi, siete qui per compatirmi, per coccolarmi?” Ora imita un’altra voce, come una caricatura. “Dobbiamo rifare la stanza! Vai a vedere come sta, perché non mangi? E lui, lui ha mangiato?” Fissa le amiche, mentre sembra riprendersi, come valutandole una per una: Claudia in fondo alla scala, Giorgia e Rossana in cima. “Su, chi viene fuori a dondolarmi?”
Giorgia sta per scenderle incontro, ma Claudia è più vicina e sale tre gradini a frapporsi, decisa; guarda Olimpia negli occhi: “E’ suo?” L’altra sostiene il suo sguardo senza replicare; lei le afferra le mani: “Olimpia: il tuo bambino, è suo?”
Olimpia usa le mani dell’amica dondolandole come un metronomo, a scandire il ritmo della propria voce: “Su-o. Su-o. Su-o.”
Rossana siede sul gradino sotto di lei, sconsolata: “Ma perché, perché? Dopo le nostre lotte, dopo tutti i discorsi!”
“Piantala!”
“No, Giorgia, non la pianto, nemmeno per sogno. Voglio dirlo: non doveva tenerlo, non doveva!”
Giorgia batte forte le palme tra loro: “Non cominceremo a farle la predica!”
Olimpia usa ancora le oscillazioni delle braccia di Claudia per dare ritmo alla sua cantilena: “Le quat-tro stre-ghe non li-ti-ga-no tra lo-ro. Le quat-tro stre-ghe son sem-pre u-ni-te. Le quat-tro stre-ghe si di-fen-do-no tra loro!” Lascia ricadere le mani dell’altra, e giunge le sue a mimare una pistola mirando verso il cielo: “BANG!!!”
Claudia le riafferra le mani, determinata: “Sei stata tu a lasciarci!”
L’amica la guarda, bloccando ogni movimento, in silenzio. Improvvisamente si scrolla di dosso quella presa, e parla in preda ad una nuova, forte agitazione, toccandosi il ventre: “L’ho voluto. Toccarmi, no. Dottori, nel mio ventre: che umiliazione, quella vita c’era, l’ultima cosa viva dentro di me.”
Mentre Rossana fissa davanti a sé borbottando qualche imprecazione, e Giorgia piuttosto allarmata azzarda : “E tua sorella? Marta?”
Olimpia siede sull’ultimo gradino appoggiandosi alle gambe di Claudia. Ora parla piano, dolcemente: “Beh, un bambino… è un bambino. Cosa c’è da fargli pagare? Un bambino che colpa può avere?”
Prende a muovere le braccia come stringessero un bimbo: guardandolo, vezzeggiandolo.
Claudia si rende conto di essere l’unica rimasta in piedi, su quella scala i cui gradini sembrano ormai gli scranni di un tribunale improvvisato. Ma il processo deve ancora iniziare, o forse non avverrà mai. Intanto, cominciano a ricostruirsi i fatti: “Tua sorella Marta me la immagino io, più sconvolta di noi, per forza: per noi quello che era successo era quasi una conferma, sì, a livello ideologico…” Improvvisa, e amara, eppure inevitabile l’autoironia: “Come andavano di moda certi termini. Nient’altro, per noi, che la constatazione della verità delle nostre tesi, delle nostre idee. Era successo, potevamo dirci: eccola qui, tangibile, la prova. Per Marta, no, per lei era la fine di un mondo, di un futuro, di tutto.”
Olimpia scioglie il suo ipotetico abbraccio e si risolleva, un pupazzo a molla cui è stata ridata la carica: “Fine, sì, la fine. Come continuare? Perché? Vivere lì, quel palazzo, quelle strade, quella gente. Le loro teste a due metri, sotto di te: gente, persone sopra di te, i piedi, lì vicino, che ti camminano sopra, appartamenti, formicai, alveari, stesso palazzo, strade, gente. Fuori la folla ti guarda ma non ti vede, ti spinge ti urta ti osserva, vorrebbe toccarti, no, fare finta di niente, non c’è, nessuno vede niente: buongiorno, come sta, che gliene importa? Tanta gente sull’autobus, per strada: tutti ti osservano, ti valutano, sì, ma poi nessuno vede. Se ti serve qualcuno che ti aiuti che ti salvi che li fermi! Chiudere gli occhi, sì. Qui, questo silenzio.” Si abbraccia, quasi a riscaldarsi: “Qui, qui è sicuro!”
Claudia è la prima a parlare, dopo una lunga pausa; ma è come parlasse a se stessa: “Qui, rintanata: questo non è il mondo!”
“Chissà: e se fosse?”
“No, Giorgia, non sai guardarti intorno? Qui dentro, là fuori: non senti quest’odore? Questa è una tana per conigli. O una cuccia per cani!”
“Piantala, ognuno è libero di scegliere la propria vita.”
“Davvero ti sembra una scelta?”
Rossana ha voglia di dire la sua, e come sempre in maniera diretta, forte, a volte brutale: “Bastardo, quel farabutto! Un tipino proprio per bene, sistemato, un buon partito, per forza: la sorella non frequenta che gente per bene! Sicuro, a posto! Loro... a posto... solo noi, noi, sempre fuori posto, noi...”
“Sempre così arrogante, con noi, Alessandro!” E adesso imita un’altra voce, Claudia, una voce maschile: “So io cosa vi manca, le mie belle quattro femministe, vi ci vorrebbe una bella lezione!”
Olimpia non regge: si copre le orecchie, scossa, alzandosi per andare fuori, nel giardino, o chissà.
Claudia la ferma per un braccio; le parla fredda, quasi sprezzante: “Sì sì, dai, ma sì, avanti, chiuditi le orecchie, tappati il naso, la bocca, tutto: rientra nella tua tana!”
Sempre nella stessa posizione, le mani pressate ai lati della testa, Olimpia si ferma chiudendo gli occhi. Parla con fatica: “Mai... non dimenticherò mai... quello... quello che mi hanno... mi ha... abbiamo fatto!”
Rossana sbotta: “Abbiamo? Abbiamo!?! Quello che ti hanno fatto!”
“Non può essere: tu, proprio tu hai dei rimorsi!”
Giorgia affonda il capo pesantemente tra le mani: “Sì, Claudia: e non solo lei.”
“Noi, noi sì, forse, anzi: sì, è così! Ma lei, tu, Olimpia: che colpa hai, proprio tu?”
“Ma finiamola, finiamola una buona volta coi complessi di colpa, perdio: una volta per tutte!”
Raggiunge Olimpia ancora in piedi, immobile, le mani sulle orecchie. Le afferra le braccia e la suote forte, forte: “Ricordi cosa ti ha fatto, cosa ti hanno fatto, sì?! Ricorda pure, avanti, fa male ma nel tuo caso non si deve dimenticare, nemmeno per un attimo: bisogna solo reagire, reagire, reagire, reagire, reagire, reagire.”
L’impeto di Rossana appare irrefrenabile, e Giorgia interviene a staccarla da quella presa; ma lei non si calma, è ancora in piena agitazione: “Ricorda, ricorda cosa ti hanno fatto, e la finirai coi complessi di colpa. Vorrei solo averti fotografato quella notte, quando rientrasti!”
Olimpia sembra non ascoltarla: si guarda attorno, verso l’alto.
“Non preoccupartene: ce l’abbiamo quella foto, in tre copie, qui, nelle nostre teste, e non scolorirà mai!”
“E sì, cara Claudia: ma anche allora fui io a dire di fargliela pagare. Voi, volevate portarla alla polizia.”
“Ti abbiamo dato ragione, no? Abbiamo fatto quello che dicevi tu, sì, perché era giusto! Denunciarli, a che scopo? Per sentire le solite idiozie, magari che era colpa sua!” E qui Claudia punta il dito su Olimpia.
Rossana appare ancora più carica, rassicurata dalla solidarietà dell’altra: “La colpa è sempre delle donne: perché osiamo guardarli, perché usciamo sole la sera, perché non ci copriamo fino alle caviglie! Tanto i poliziotti sono maschi, e i giudici sono maschi, e i direttori dei giornali, e i politici e i preti e tutta la mentalità di questo paese è maschilista come i preti che la comandano!!! ”
La interrompe Giorgia, ha ascoltato caricandosi anche lei sempre più, ma in un altro senso: “E le bende, dove le avete? Il sarcofago! Mummie, siete delle mummie: quanto volete andare avanti ancora? Questi discorsi puzzano di muffa!”
“Già, e la gente si è stufata di sentirli, vero? Ma le cose, dì: la realtà, è cambiata davvero?”
“Non cambierà con questi discorsi, dovremmo averlo imparato.”
“E come, allora? Spiegamelo tu: come?!”
Olimpia sembra ancora assente, ha risalito quei gradini, è entrata un istante nella propria stanza, subito riuscendone con un mazzolino di fiori secchi nella mano destra che ora solleva verso le altre: “Cento giorni agli esami di maturità, la gita con la classe, un mazzetto per ognuna di noi, com’era timido quel professore!” Sorride. “Che stupido: ci cascava sempre, ricordate quante gliene abbiamo fatte?!” Mima di annusare un enorme mazzo di fiori che tiene tra le braccia. Come cingendo il mazzo di rose o meglio un cavaliere, prende a danzare, come in un valzer, cantando sottovoce: “Vorrei danzar, con te / tra le tue braccia, amor / e non fermarmi più. Vorrei danzar, con te.”
Claudia la interrompe, in un modo brusco che lascia dapprima sconcertate le altre due: “Inutile giocare a fare la pazza, Olimpia: io non ci casco!”
“Allora però dovete andare. Non è per me, è per lei, Marta: non deve vedervi, le farebbe male, e poi io devo tornare di là, da lui.”
“Perché non lo porti fuori, Olimpia? Lui vorrà giocare.”
“Troppo caldo!”
“Almeno, faccelo conoscere.”
“Cos’è? Non sta bene, è… malato?”
“No, no, sta bene!” La voce eccessivamente alta rende meno convincente la rassicurazione alle orecchie delle altre. “No, è Marta che non vuole”
“Marta non vuole?”
“Sì.” E’ sempre più in imbarazzo. “Nessuno deve vederlo.” Precede Claudia che sta per parlare. “Non preoccupatevi, verremo noi, presto, da voi; verrò io, un giorno, a trovarvi; mi vedrete, quando meno ve lo aspettate, e sarà tutto come una volta.” Un sorriso: “Toh, chi c’è: è tornata Olimpia! Tutto come prima, tutto come prima.” Bacia Claudia che le è accanto, poi Giorgia, infine Rossana. Nessuna delle tre sa come reagire. “Addio, verrò io. Adesso andate via!” Prende a spingerle giù per le scale, delicatamente ma con convinzione.
Claudia sembra rassegnata a non comprendere.
Rossana probabilmente sta pensando che sarebbe meglio tornare lei, da sola: ormai conosce la strada.
Giorgia si aggrappa al corrimano, rivolgendosi proprio a loro: “No, non si può lasciarla così. Olimpia: parlaci, ma davvero, dì qualcosa di vero!”
“Lasciamo stare. E’ stata qui per tutti questi anni, e ora in un giorno vorremmo risolvere tutto. Cosa, poi? E anche dirle cosa deve fare!?”
“Sì, Rossana: so non altro per il bambino. Come credi che crescerà, qui, un bambino?! Non c’è nemmeno una farmacia in questo paese, e dov’è il telefono, ce l’avete, Olimpia? Almeno per un’urgenza.”
“Beh, se è per questo si è vissuti per millenni senza telefono.”
“E infatti la mortalità infantile era dieci volte quella di adesso! Oh, Claudia, che mi fai dire: ma il bambino ha bisogno di compagnia, Olimpia.”
“Andate via, prima che torni Marta.”
“Marta è sempre con te?”
Olimpia fa un cenno affermativo col capo, che non riesce però ad essere rassicurante. Almeno per le altre.
Rossana esprime questo suo dubbio guardando le due: “Per starle vicina, per rinfacciarle il passato!”
“No, non possiamo dire questo, che ne sappiamo?“
“Sì, Claudia: dobbiamo. Non vedi? Olimpia si sente carica di tutto: bisogna solo convincerla che quello che abbiamo fatto è stato giusto!”
Dopo un silenzio in cui di nuovo le tre sembrano tanto prese dai loro pensieri da dimenticare quasi Olimpia, Giorgia replica a Rossana con voce lenta, soppesando le parole: “Tu, riesci ad esserne sempre, pienamente convinta?”
“Sempre! Potrei rifarlo mille volte, anzi vorrei rifarlo ogni volta che sento, che leggo, che solo immagino una di queste storie.”
“Sei contenta anche di com’è andata?”
“Sì.”
“Anche che le cose siano andate più in là di come volessimo?”
“Era un rischio da correre.”
“O forse hai voluto che andassero come sono andate?”
“No, ma sono pronta ad accettarlo.”
“Rossana ha ragione, Giorgia. Cerchiamo di non essere ipocrite: c’eravamo tutte, quella notte!”
Rossana è come ricaricata dalla frase di Claudia: “Volete saperla tutta? Una cosa mi dispiace, sì, una cosa sola!” Attende che le altre la guardino bene in viso. Anche Olimpia.
“Gli altri due!” Guarda Giorgia con sprezzo: “Il tuo Vittorio Melis, per esempio!”
“Lascia stare, Alessandro era il colpevole, lui.”
“Certo, gli altri due, anzi: che bravi ragazzi, non si sono neanche voluti divertire, non hanno voluto approfittare, eppure, era così facile! La sciarpa nella bocca, le mutande già strappate, le cosce spalancate!”
“Smettila, perdio!”.
E Claudia s’avvicina a Rossana come a volerle tappare la bocca. Giorgia compie un analogo movimento verso Olimpia, per abbracciarla e non farle sentire.
“In fondo cos’hanno fatto? Non l’hanno mica uccisa, magari quella s’è pure divertita, già era una poco di buono, femminista attivista e dichiarata per di più!”
“Volevo solo dire che gli altri due neanche la conoscevano.”
“Già, per loro era solo un pezzo di carne.”
Rossana è ormai in preda a una crisi; quasi urla: “Ma come si può credere che una donna, che un essere umano sia solo un buco, un buco dove trastullarsi!”
Claudia ora la scuote: “Basta, basta, rischiamo d’impazzire tutte! Alessandro era il colpevole perché era lui che la conosceva, e che stava con Marta da due anni, che doveva sposarla. Solo questo ho detto. Sul resto siamo d’accordo: adesso come allora.”
PARTE QUARTA: L’OSPITE
OVVERO SE SIA MEGLIO VIVERE NELL’ILLUSIONE OPPURE TENTARE DI VIVERE UNA REALTA’ COMPLESSA CHE PROPRIO QUANDO APPARE CI MOSTRA LA SUA INVISIBILITA’ (INAFFERRABILE INCOMPRENSIBILE INCOMPIUTA).
Passi di donna risuonano nel corridoio. Appena il tempo di girarsi verso quel suono, che appare la testa di Marta che fa capolino dal corridoio: “Eh, ma che sorpresa!” Ora si fa avanti, le borse della spesa in mano. Riesce ad esibire un formale, ambiguo sorriso. Le guarda una per una, mentre loro sono rimaste immobili. “Claudia. Giorgia. Rossana. Quanto tempo. Ora vi presentate qui. Perché?” Nessuna risponde. “Non parlate? Ditemi come mi trovate.” Una risata immotivata: “Sono bella, così, con queste buste di plastica in mano? Vado a poggiarle, accomodatevi in salotto, bevete qualcosa. No, anzi, nel tinello sul giardino, tra noi niente formalità, siamo un po’ una grande famiglia, no?”Ma le tre donne sono ancora lì, immobili, quando lei è già nell’altra stanza, e ha poggiato le buste sul tavolo. Le chiama: negli occhi la fretta, la voglia di tornare al loro cospetto; fretta sicuramente non condivisa da nessuna delle tre, che pure avvertono l’essenzialità di quel passaggio nel loro reimmergersi in quella storia. “Su, venite, cosa volete bere?”
Neanche il tempo di raggiungerla e lo sguardo di Marta è completamente mutato: passa più volte dai loro occhi alla fotografia di Alessandro, o meglio al vetro spezzato che quell’immagine copre. “Anche questo!” Prende in mano l’oggetto, ne percorre il solco tra i pezzi di vetro, fino a staccarne il dito e guardarne una goccia del proprio sangue che ne stilla. La ferita provocata da quel vetro ne riapre un’altra, ben più profonda, peraltro mai richiusa in lei come in loro. Eppure, riesce a parlare con una voce che sembra addirittura esssere calma. “Voi che avete distrutto la mia vita, voi, in galera dovreste essere, non qui.” A questo punto l’alterazione interviene a rompere la controllata, artefatta pacatezza del suo esprimersi: “Iene. Guardatemi, ma sì, guardatemi pure: ecco come sono ridotta alla mia età, ancora giovane, piacente, la carne mi brucia, sola, ad accudire mia sorella. Rimorso, dite: sapete almeno cosa sia, il rimorso? Io, io non cercavo la luna, non cercavo l’impossibile, io. Io che avevo un avvenire tranquillo, sicuro. Certo, non lo avrei più sposato, certo, come avrei potuto, dopo quello che aveva fatto, povera Olimpia, povera sorella mia.” Il suo tono muta ancora: irato, accusatorio: “Ma voi, che c’entravate voi? Chi siete, come potete voi giudicare, e condannare, e giustiziare?!? Potrei mandarvi tutte in galera, e questo lo sapete, no? Sapete anche perché non lo faccio? Povera sorellina, per lei, solo per lei, non lo faccio. Dovrebbe penare ancora, lei. Sono buona io, non come voi. So perdonare, io. Perché in fondo è anche colpa sua quello che è successo” Uno strano lampo negli occhi, quasi una strozzatura nella sua voce: “Non lo so, non lo so proprio. Farla penare ancora, perché? Per lei sarebbe uguale, qui o lì...vedete com’è ridotta? Ma almeno, lei, sta pagando. E qui sta bene, con me, certo, accudita dalla sorellina, da me, me, la sorella cui ha rovinato l’esistenza!”
Nessuna parla, nessuna si muove, ma i loro sguardi dicono parole affatto diverse. In Rossana, per esempio, la compassione sembra essersi fatta disprezzo. Sta per parlare, ma Marta la precede. “Perché, io, so tutto. Tutto benissimo. Quella notte Olimpia non rientrò. La mattina dopo non voleva più parlare: segni sul suo corpo, ero atterrita, non potevo credere che, proprio a lei; sì, si legge sul giornale, ma poi la vita è un po’ diversa, no, almeno mcon noi, no? Cercai di aiutarla, sola, nessuno cui poterlo confidare, papà, già stava male, allora, proprio allora il telefono squillò, e non eravamo che agli inizi, i genitori di Ale mi avvertivano, gli avevano sparato, alle gambe.” Con ironia raggelante: “Andava di moda, in quegli anni, sparare alle gambe. Una specie di cortesia, un semplice rimprovero, più uno schiaffo che un pugno. Era come dire ‘guarda come siamo bravi: avremmo potuto ucciderti, visto che ormai eravamo qui, invece toh, bang bang, le gambe…’” Tenta una risata sarcastica, che subito le risale in gola, trasformandosi in singulto; subito si riprende: “Riattaccai, e non passò un attimo: intuito femminile! La guardai, le chiesi, restava muta. Facile collegare le cose. Facile? Fu la cosa più difficile al mondo. Quale mondo? Non c’era più il mondo, per me: crollato, distrutto, totalmente, finito, disintegrato, in un istante era scomparso. L’uomo che volevo sposare aveva commesso l’infamia più infame, su mia sorella! E mia sorella, e voi: occhio per occhio, quella stessa notte: come crederci? Eppure fu quello, proprio quel pensiero a venirmi in mente, subito; Ale mi aveva accompagnata a casa, a mezzanotte, con ossessione ricostruivo orari e spostamenti, ma come potevo immaginarmelo, lì, che la aspettava, o che andava a cercarla. Era solo, o con altri? Era stato per caso, incontrandosi, o imbattendosi in lei, o già ci pensava, da prima, mentre era con me, ma come può essere? E come poi voi, voi! Uscii, e non pensavo che il peggio dovesse ancora venire: l’ospedale, i genitori, compresi che non m’avevano detto tutto. Una pallottola, una sola, era andata più su, ma sì, un errore di mani forse inesperte, ed io sentivo, sapevo quali mani. Ma, a loro, non volli dire niente: ‘Nessun sospetto’, risposi. Ve lo siete chiesto il perché? O davvero pensavate che non avessi capito? No, questo non può essere: e allora? Per Olimpia? No, in quelle condizioni, se anche fosse stata con voi chi avrebbe avuto il coraggio di condannarla? Per lui? Certo, sarebbe venuta fuori tutta la storia, quello che aveva fatto.” Urla, improvvisamente urla: “Ma non è questo! Non m’importava più, questo! Il mondo, il mondo era crollato, ormai: folle, confuso, insensato, non m’interessava più. Processi, testimonianze: perché? Chi, cosa riavrebbe dato un senso alla mia vita?!?” Come un sacco svuotato, crolla su una sedia.
Claudia prende a parlare come tra sé, guardando nel vuoto: “Olimpia arrivò. Era sola. Aveva camminato, forse ore. Chiamai loro due, decidemmo: era l’occasione. Imprevista, inesorabile, esemplare. Non potevamo tirarci indietro! Mio padre, aveva una pistola in casa. Sapevo come aprire quel cassetto. Sull’auto di Giorgia, poi a piedi, fin sotto casa sua, disposte ad attenderlo anche fino al mattino, magari sarebbe uscito con qualcun altro, magari ci sarebbe stata troppa gente. Invece, arrivammo che lui stava rientrando, proprio allora: destino? Tre colpi, dall’angolo più vicino: basso, basso, avevamo detto. Via, via! Nessuno aveva visto, nessuno poteva sospettarci. Ma sapevamo che tu, soltanto tu... Mio padre intuì solo che la pistola era stata usata; non poteva collegare, ma guarda caso dopo nemmeno un mese mi spedì negli Stati Uniti.”
“Anche io andai via. Non così lontano. Dai miei nonni, in Sicilia. Per studiare meglio, dissi ai miei. Ci restai per mesi. Era così diversa quella vita: la campagna, quei problemi così concreti, veri, contingenti. Poi nacque Marco.”
“Io no, non sono fuggita. E dove? Le università americane sono care, per le mie tasche; e non ho nonni da nessuna parte. Ma non volli saper più nulla: fu quella la mia fuga. Alessandro era uscito dal coma: mi bastava!”
Il suo sforzo per controllarsi è allo stremo: parla ora con forza, si sforza di ribaltare la situazione. Fissando Marta: “Sorellina, sorellina la chiami. Però la stai accusando: pazza! Ecco perché lei gioca a far la pazza: per espiare. Ma sei tu la pazza!”
Olimpia. Se ne parla tanto eppure nessuno si è accorta di lei, che neanche c’è più, in quella stanza. E’ rimasta a lungo sulle scale, la testa affondata nelle braccia ancora nel tentativo di rifiutarsi di ascoltare. Ora si alza ed esce di nuovo in giardino, si ferma un istante ad ascoltare le cicale, poi riaccende il registratore e la musica inonda l’aria ma non spegne le voci della casa. Allora lascia quel giardino, varcando il piccolo cancello posteriore: un enorme campo di fieno dinnanzi a lei, e lo percorre tutto, a perdifiato, lanciata in una corsa verso la sponda del lago, l’acqua, purificatrice o forse solo fresca, divertente, che copre e avvolge nel suo liquido, l’altro suo rifugio, quello ancora più misterioso perché oscuro alla sorella che non lo ha mai sfruttato, mentre lei... lei contro il muro di un garage, lei tenuta ferma da due ragazzi col volto celato ma che lei riconosce: gli amici di lui, di Alessandro. Alessandro! Eccolo lì! Cristo, com’è possibile che dopo anni sia sempre di fronte a lei, con quella bottiglietta di birra in mano con la quale le solleva la gonna fiorata e leggera. Olimpia che ora vede il verde degli alberi e l’azzurro del cielo rispecchiarsi in quell’acqua ancora meravigliosamente limpida e sa che la sua realtà è ormai quella e che le sue paure passate, lasciate lontano, via, in un mondo dove la gente non si conosce e si disprezza per il proprio aspetto o per il proprio pensiero, un mondo di rumori e di caos che annullano quanto può esserci di più bello, semplice e vero. Ecco la sua piccola barca. Claudia le apre la porta di casa e si trova di fronte Olimpia pesta e sconvolta. Un urlo, zitta, attenta a non preoccupare i tuoi, affrettati a dirgli che è tutto a posto, che è Olimpia, la sua amica, che non si preoccupassero per l’ora. Alle loro stranezze sono abituati, in casa. Olimpia che entra e Claudia, senza parole, la stringe tra le braccia. Il piccolo capanno protegge l’imbarcazione dal sole e dalla pioggia, Dio come scivola facilmente nell’acqua, non può non compiacersi, ogni volta, di quanto bene sia organizzata. Tutt’e tre a guardare Claudia che forza il cassetto del padre, paura che si assomma a paure, attente che non entri, non lasciare segni, SPLASH l’acqua è tiepida e accogliente e l’aria meno soffocante, che gran pioggia sotto casa di Alessandro, Olimpia dalla macchina che guarda, che vede, che sente BANG BANG BANG!!! SCHAFF SCHAFF SCHAFF i remi penetrano nell’acqua e risalgono, risalgono in auto, le facce sconvolte, il suo volto inclinato verso l’acqua scruta, gli occhi sollevati a scrutare l’altra riva: il suo spazio di fuga, le sue evasioni di cui Marta non saprà mai nulla, perché non si deve dire nulla, bisogna che tutto resti segreto, mai successo, e allora perché tutto il resto, tutto cosa se non c’è nulla. Nulla!
“Ma volete staccare quella musica?!? Non se ne può più, tutto il giorno, come se non ci fosse già abbastanza chiasso. Non se ne può più, tutto il giorno, come se non ci fosse già abbastanza chiasso.”
Giorgia esce in giardino a spegnere il registratore, e Marta riprende a parlare come faticando, ma piano piano, riprendendosi, ricaricandosi via via, sforzandosi di assumere un tono da conversazione salottiera.
“A voi sembrerà pure bello: il verde, la natura, le cicale. Viva la natura! Che fare in città? Qui abbiamo tutto, servite e riverite: trattate da signore. Non c’è giorno che riesca a fare la fila dal droghiere o dal macellaio. Siamo trattate come meritiamo, qui: ‘Prego, signora, si accomodi’. Ma le cicale, per me sono un’ossessione, le cicale, una vera ossessione. Ah, ah.” Ride, ma sono nervi. “La sapete, la volete sapere la cosa più buffa? Voi, credevo foste voi la mia ossessione. Invece no, sono proprio loro, l’estate, queste cicale. Dio, sembra incredibile, non mi dite più nulla: chi siete, cosa significate per me? Ma d’autunno sono gli uccelli, che vengono a farsi il nido qui, e sono tanti, tantissimi, e urlano, sbraitano, sono in amore, non cessano mai di cantare: fanno chiasso, e sporcano, sporcano, la loro cacca mi fa schifo, ci ricoprono le sedie, e il tavolo, gli uccelli in amore. Ogni stagione ha le sue ossessioni, qui. Siamo così dentro la natura… e voi, proprio voi, sì, ah: credevo foste voi la mia ossessione! Perché siete venute? Mi distruggete un’altra illusione. Cosa dirò, cosa accadrà, quando le vedrò? Niente, proprio niente. E’ così diversa la realtà da come si pensa! Ho sognato, immaginato per anni: chissà, cosa proverei, averle davanti, sì, magari proprio qui, davanti a me. La mia rovina, loro: invece è terribile. Niente, non si prova niente, più niente, questo è davvero terribile: attendere per anni il tempo, il tempo di rivedervi. Ripetere, ripetere, ripetere all’infinito dentro di sé le stesse frasi: dure, violente! La volontà, la necessità di rinfacciarvi, accusarvi, rendervi con-sa-pe-vo-li. Allora, è proprio vero che il tempo cancella tutto, che spazza via come il temporale!” Con gesto lento ma deciso, come un automa, spazza via dal tavolo le buste della spesa che, cadendo, lasciano fuoriuscire scatolame, involucri, bottiglie. Una confezione di pomodoro si spacca, rovesciando il suo liquido.
Le tre osservano la scena quasi inebetite. Solo Giorgia si cura di raccogliere la roba. Marta la guarda stupita, quasi incredula nel vedersela così vicina, presente, davanti a sé. Non si accorge che sta per poggiare la mano sul vetro rotto, finchè non sopraggiunge il dolore: un piccolo urlo, ma poi è quasi con voluttà che guarda il suo pollice versare sangue. Lentamente preme sul taglio: ancora cola qualche goccia di sangue. Passa quel dito sulle guance dell’altra, disegnandole due righe rosse, sotto gli occhi. Sembra un automa, o uno sciamano alle prese con un suo rituale. Si risolleva e raggiunge Claudia eseguendo lo stesso assurdo gesto. Cerca ancora sangue dalla stessa ferita avvicinandosi a Rossana. Quando le sue mani sono quasi sul viso della piccola ed esile donna, questa le blocca le mani, torcendole. Marta, impreparata alla reazione, si lascia spingere fino al tavolo, e ancora senza opporsi si lascia portare le mani fino al volto, anzi ora è lei stessa che vi mantiene la mani, nascondendosi il viso, mentre le sue spalle divengono tremolanti, indicando un pianto sommesso. Ma Rossana è ormai caricata, e sembra incurante del sentimento dell’altra, o forse sta solo cercando di non soccombervi: “E non piangere: Olimpia deve crederti forte, no? O capirebbe che sei tu quella che ha bisogno di protezione, sei tu quella che non ha avuto mai il coraggio di vivere: la sera in casa, la figlia brava, studiosa, che esce solo quando lui ti passa a prendere! Eh, già: con la scorta si corrono meno rischi di brutti incontri!”
“Basta, Rossana questo gioco al massacro!”
“Già, Claudia: è un gioco, proprio così, non vi vedete? Tutte mascherate, come a Carnevale, manco solo io.” Stacca le mani di Marta dal suo viso e le mette sul proprio.
“Cos’è, non c’è più sangue? Allora, un po’ di questo!” Affonda le dita nella salsa del pomodoro e le passa sulle proprie guance: “Ecco, il quadro ora è completo! No, mancherebbe Olimpia.” Si guarda in giro, e subito si spinge nel corridoio raggiungendo le scale.
Claudia sospira forte per calmarsi e prende dalla tasca un fazzoletto, pulendosi il viso, poi si accosta a Marta per compiere la stessa operazione. Gli occhi della donna quasi si spalancano: evidentemente quello che la sconvolge è il fatto di trovarsi così vicino al proprio il viso di un altro essere umano. Troppa solitudine? Oppure sono proprio quei visi? Certo che è così, bisogna almeno provare a convincerla ad accettare la loro presenza, il loro ricordo.
“Siamo qui per tentare di aiutarvi, se si potrà. Perché noi non sapevamo. Siamo fuggite, ma ora siamo qui, insieme, noi, con voi, e dentro di tutte noi, l’una dell’altra. Allora tu e Olimpia dovete tornare a vivere, o vogliamo lasciare che anche il bambino paghi per tutte noi?”
Ancora con lo sguardo vuoto, come a non mettere a fuoco quel volto così vicino, Marta sussulta: “Chi?”
Interviene Giorgia: chissà perché, certo a suo modo di vedere per l’esperienza diretta, ritiene l’argomento quasi una propria esclusiva: “Il bambino, certo. Se non per voi stesse, dovete farlo per lui, ha l’età di Marco, giocheranno assieme, dovrà scegliere quale scuola, lascerà questo giardino!”
“Sì, non vi abbiamo dimenticato: vi aiuteremo, anzi ci aiuteremo.”
E’ come se Marta si riprendesse: le guarda a lungo, in silenzio. Poi volge attorno lo sguardo, mormorando: “Olimpia”, ricercandola in luoghi bassi, come si trattasse di un animale abituato a rintanarsi. “Dov’è Olimpia?” Torna con lo sguardo alle due, indecifrabile, tenendole in sospeso su qualcosa che sta per dire ma che vuole avvolgere di mistero prima di gustarne un qualche ignoto effetto. Esplode imprvvisamente in una risata forte, piena, più dolorosa che allegra, che progredendo diviene quasi agghiacciante, come una beffarda irrisione.
Rossana sale fino alla sua camera, certa di trovarvela; ma la stanza è vuota, lei spalanca la persiana e vede sul lago immobile una barca, vuota. Un terribile presentimento l’afferra. Si precipita per le scale, ed esce in giardino. Uno sguardo fugace alle altre donne che sono anche loro alla ricerca di Olimpia. Ma lei solo sa, e corre via, corre attraverso il campo ancora segnato dal passaggio dell’amica, giù, giù fino al lago spogliandosi in fretta, e poi subito dentro, nell’acqua: bracciate vigorose, veloci, bisogna sapere, sciogliere la paura, controllare il suo pensiero dominante, non sapere è la cosa peggiore, il rimorso che non può mai pacificarsi, hanno fatto bene a venire, a cercarla, comunque sia. Purché ora non sia accaduto qualcosa. Un’altra volta, un altro qualcosa d’irreparabile.
Lo stesso dubbio che sta venendo alle altre due, ma è solo un piccolissimo tarlo, una preoccupazione improvvisa che è riuscita perfino a scacciare quella per Marta, per la sua risata, per le sue parole. Marta, Marta lo sa, dov’è andata: l’ha cercata sull’amaca, dietro i casottino, sull’albero, Olimpia non c’è, dunque è al lago, sì, bisogna andare verso il lago.
“A volte prende la barca e va, arriva dall’altra parte, sta via neache un giorno, o due, non mi dice dove va, non so cosa faccia, la prima volta mi prese un accidente, ora non più.” Percorrono anche loro la stessa strada, ora trovano la camicia di Rossana e alzano lo sguardo a vederla nuotare nel lago: ha già raggiunto la barca, deve appoggiarvisi a riprendere fiato, ma intorno nessuna traccia, non il rumore di due braccia che nuotano, nessuna risposta al suo chiamare: “Olimpia, Olimpia!”
Rossana si issa sulla fiancata, affanna, poi sgrana gli occhi aprendosi in un largo sorriso: eccola lì, Olimpia, sdraiata pacatamente sul fondo. Da quella posizione vede solo il cielo, il passaggio degli uccelli, l’intromissione di qualche nuvola che prova a rendere il sole meno bollente. Non si muove, solo i suoi occhi si proiettano verso Rossana, Si guardano, a lungo, intensamente. Dalla bocca di Olimpia, inaspettatamente, sale un mormorio che diviene a mano a mano più distinto e decifrabile; la sua amica tende le orecchie in attesa di una parola, una confessione che ora, in quella solitudine, l’altra potrà affidarle. Il messaggio in qualche modo c’è, trasversale, forse più intenso e profondo di uno diretto. Olimpia, infatti, canticchia la loro vecchia canzone:
“Le quattro streghe non litigano tra loro. Le quattro streghe sono sempre unite.”
Rossana trasforma il sorriso sospeso in una sonora risata liberatoria, che insieme è sollievo, complicità, gioia. Allunga una mano che l’altra afferra aiutandola ad issarsi per salire nella barca.
Le tre donne son giunte in riva al lago e guardano la scena. Potrebbe essere un ritrovarsi, quest’emozione comune, così succede spesso nei films: un abbraccio, una lacrima, e anni di dolore e rancore si sciolgono come per incanto. Stavolta non avviene, c’è solo imbarazzo nel ritrovarsi lì, a fianco, ancora una volta unite solo nel timore di un ulteriore dolore. Marta prova ripetutamente a chiamare la sorella, ma la distanza è troppa. Dalla barca comunque anche Olimpia è riemersa, visibile a fianco di Rossana cha si gira verso le altre con un cenno rassicurante. Sembra il quadro ideale di un gruppo di amiche in vacanza: basterebbe un Seurat o un Manet ad immortalarle.
“Puoi venire a stare da me, anche col bambino, naturalmente. Anch’io son tornata in città da poco, ora dovrò cercarmi una casa vera. Prendiamola assieme, io non ho molti soldi, dai, mi farebbe un gran piacere, e anche comodo!”
Olimpia ben comprende il senso di quelle parole: non è certo un aiuto economico che la sua amica ricerca! Grata di tanto affetto immutato nel tempo, le sorride .
“Ora rientriamo, Marta mi chiama”.
Giungono a riva e assieme fanno scivolare a terra la barca. Risalgono assieme il campo verso casa, in silenzio. Le cicale tornano ad essere regine di quella quiete. Bello, tutto è così bello!
Soltanto in mezzo al lago sono sola, e tranquilla, al riparo. O di là, sull’altra sponda, ma lì non è sicuro, non so chi c’è, però ogni attimo che passo qui, ogni ora, ogni giorno avverto il suo ansimare, lo so che è impossibile, da qui, eppure lo sento, è lì dietro quella persiana: com’è possibile che in tutti questi anni io abbia potuto resistere a sentirmi sempre, continuamente, in ogni mio istante così schiava dei suoi occhi!
Arrivate di fronte alla casa, nulla di affascinante rimane di quella campagna, di quel lago, di quel panorama: tutto è adesso problematico. Che fare? Andar via, questa è l’idea delle amiche, questa l’idea delle sorelle: che vadano via! Marta si tiene in disparte e continua a scrutare costantemente Olimpia.
Claudia dà il via ai saluti: “Olimpia, ora andiamo. Ti lascio qui i miei numeri. Che imbarazzo, so che non avete telefono, ma per qualsiasi evenienza non fatevi scrupolo. Comunque ritorniamo noi, eh: usciamo, andiamo a pranzo in un bel posto qui attorno.”
Povera Claudia, come dev’essersi sentita stupida a pronunciare quelle parole così inadeguate rispetto a quello che si vorrebbe dire, fare: ma come? La abbraccia, con gesto forte e convinto più diretto delle parole.
Poi è Giorgia a prendere la parola: “Senti, ti chiedo solo questo. Prima di andare, ci fai conoscere il bambino?” Ha quasi paura di aver osato troppo. “O almeno promettici che la prossima volta...”
“Il bambino?” La voce di Marta è una lama che si conficca nei loro spiriti; Olimpia è come pietrificata: “E’ così, eh, la vostra grande amica! Questo vi ha raccontato... ma non lo capite? “ Fa una lunga pausa, poi riprende, sprezzante: “Vi odia! Vi ha solo preso in giro!... Non c’è nessun bambino!”
“Non è vero: l’ho sentita io che parlava, dietro la porta”
“Certo, certo che parla. Olimpia è pazza, l’avete fatta impazzire voi!”
“Non ci credo!”
Rossana guarda Olimpia che però non sostiene lo sguardo, e va a rifugiarsi nel casottino. “Allora voglio vedere!”
Marta si frappone. Un urlo: “No!!! Lascialo stare!” L’altra si ferma con aria interrogativa, ma decisa. “Mio padre! Nessun bambino, non c’è nessun bambino.“
Sorride nervosamente. “Una storia così triste, un’illusione per lei, per farla andare avanti, una storia squallida, troppo, e non c’è nemmeno un bambino per addolcirla. Solo nella sua fantasia.“ Inspira, cerca di darsi forza. “Mio padre è molto malato, vivrà ancora poco. Era così forte. Siamo qui soprattutto per lui, deve stare tranquillo, lontano dai rumori. Sognava sempre la tranquillità, la pace, il verde. Lontano dal caos, dalla folla, dalla violenza, e basta così poco: andare via, lontano, appena un po’, lontano dalla città: via, via, solo noi, Olimpia, lui, io, dobbiamo essergli vicine. “Cerca di assumere un maggior distacco:
“Ma la casa in città è sempre nostra, vi torneremo appena, beh, appena nostro padre starà meglio!” Non regge, si morde le labbra per non piangere. “Che cretina! Lo so che non c’è alcuna speranza: non guarirà mai, lui. Mai.”
Le tre donne guardano in basso, stranamente univoche: colpite ma anche frastornate, imbarazzate.
“Lo avevo capito, sì, che parlava a un malato, ma non pensavo a vostro padre.”
“Gli anni sono passati anche per lui, e tutto quello che successe, vederci così, le sue uniche figlie. Troppi colpi, assieme”
Giorgia si sforza di sorridere: “Qui almeno sarà sereno, con le sue figlie accanto.”
“Olimpia, perché ci ha mentito?”
“Ma non vedi, Claudia? Guardala!”
Si avvicina alla sorella che è come rintanata nel casottino. Quando le è vicina, questa sgattaiola via e va a rifuggiarsi in casa.
“Ecco, neanche vuol salutarvi, non vuole più vedervi. E con questo, chiudiamo ogni argomento.”
Il suo sguardo si ravviva, riprende pieno controllo di sé. Se mai lo aveva perso.
Rossana scuote il capo come a convincersi solo della sua idea, scacciando le altre: ”Le ricordiamo troppe cose, solo questo! Non è che non ci vuole più bene, no: è solo che le ricordiamo troppe cose!”
“No! Invece vi odia, vi accusa!”
Claudia chiude gli occhi sforzandosi di razionalizzare: “Chissà? Abbiamo sbagliato, ma chi può dirlo ora? Allora, era tutto talmente diverso, che il vero errore è voler giudicare, oggi. Tutto è diverso, a cominciare dai nostri stessi pensieri.”
“Non basta dir così! Alessandro è morto!”
“Oggi, sono altri cervelli che giudicano altri cervelli!”
“Alessandro è morto!”
Claudia riapre gli occhi.
“Morto morto morto morto morto.”
Giorgia ricorda: “No. All’ospedale ci siamo informate, hanno detto che ormai era fuori pericolo.”
“Invece è morto!” La maggiore delle donne guarda le altre in silenzio, poi: “Non ve ne siete preoccupate più, vero?”
“Sì, ma decidemmo di non volerne sapere più nulla, anche per noi qualcosa crollò, ce ne rendemmo subito conto. Tu e Olimpia siete scomparse, informarci sarebbe stato pericoloso. Nessuno poteva sospettare. Nessuno tranne...“
“Me?”
Rossana si accosta a Marta con aria di sfida: “Con me, non provarci nemmeno, con me: nessun rimorso, fosse morto cento volte!”
Claudia invece vorrebbe smorzare: “Fu un errore.”
“Errore? Perché non glielo andate a dire? Su, forza: ‘Scusa, abbiamo sbagliato: volevamo colpirti alle gambe, invece cos’è questa roba, farla tanto lunga per qualche centimetro!”
“Lui, ha sbagliato lui!”
“Rossana, come sei convinta, proprio come allora. Lo avevate esasperato, era un bravo ragazzo, non avrebbe mai commesso un simile crimine! Non facevate che sfotterlo, sempre, ogni volta che lo vedevate: a casa nostra, in strada, a scuola. Eravate un incubo per lui, me lo raccontava. Per come vestiva, per come portava i capelli, per come parlava, e per quel cappotto, nuovo, lo avevamo scelto insieme: che scherzo cretino, come quello alle gomme della sua auto nuova: divertente, eh? E quelle maledette vernici, quelle vernici che avevate sempre con voi: perché perseguitarlo, perché?!?”
“Gli davamo quello che meritavano i tipi come lui!”
“Olimpia sta pagando, ma anche voi, vorrei che impazziste anche voi nel ricordo di ciò che avete fatto, ma siete troppo aride, e tu, poi, Rossana!”
“Basta, basta! Non voglio più sentirne parlare, basta con questi discorsi che ci hanno avvelenato la gioventù. Dobbiamo salutare Olimpia e andarcene. Basta, torneremo appena sarà possibile. Io, almeno, lo farò, e sono certa che andrà meglio. Ero sicura che il primo impatto non avrebbe risolto ogni cosa!”
“Hai ragione, Claudia, meglio andare. Non le diremo niente del bambino, niente di vostro padre. Chiamala tu, Marta, almeno per salutarla.”
“Lasciate in pace Olimpia!” Sembra decisa, la sorella maggiore, ma un lampo degli occhi muta il suo sguardo: “E va bene, se proprio volete. Vieni tu, Rossana: andiamo a chiamarla, tu, la più convinta, la più decisa, ma anche la più vicina, forse, vieni!“
La prende per mano e si avviano in casa.
“Ma sì, in fondo, che brave amiche: siete riuscite a trovarci, siete state proprio carine. Perché mentirvi? Volete sapere, e non è solo curiosità, la vostra, no: dovete sapere!”
Entrano in casa. Claudia e Giorgia restano in attesa. Sentono la voce di Marta chiamare la sorella ad alta voce:
“Olimpia, su, fallo vedere il tuo bambino alle tue amiche, vieni fuori, Olimpia.”
Ma la prima a venir fuori è Rossana: si tiene le braccia strette al corpo, abbracciandosi come a proteggersi da un freddo che certo solo lei può sentire in quel giorno. Invece no: è una sensazione contagiosa: le altre due sono scosse da analoghi brividi mentre si comincia ad avvertire, appena percettibile ma via via sempre più distinto, il cigolio delle ruote di una carrozzella. Attraverso la porta-finestra compare la sagoma di un uomo, sedutovi sopra, immobile. Le ruote si bloccano, esce Olimpia che la spingeva.
“Eccolo, vedete? Il mio bambino.” Torna indietro ad accarezzare il viso del giovane uomo, affettuosamente materna. “Il mio piccolo, il mio povero...” S’interrompe girandosi a guardare la sorella: “Il nostro bambino”.
Gli occhi delle altre donne vagano da quelli dell’uomo a quelli delle altre due. Marta le scruta una per una come a volersi imprimere quegli sguardi che sanno di paura e rimorso, ma forse anche dolore e odio.
Olimpia va verso la sorella, che la abbraccia, e la fa girare lentamente, come in un ballo. Quando nel giro Marta si trova a fronteggiare le tre donne, gli getta in faccia una risata piena, agghiacciante, quasi un parossistico trionfo. Olimpia, dapprima sommessamente, prende anche lei a ridere apertamente, pur tra le lacrime. Ora le due sorelle si tengono per mano, guardando le altre che sono incredule, attonite, inorridite. Il frinire delle cicale appare ora insostenibile, infernale. Un urlo lacerante spezza la continuità di quel suono: Claudia prende la sua borsa e raggiunge il cancello. Quasi indietreggiando, le altre due la seguono, e tutt’e tre escono. Il cancello è restato accostato e Marta lo raggiunge e richiude con enorme forza; il clangore del ferro produce un’inquietante acutissima vibrazione; lei non se ne cura, si gira appoggiandosi ad esso. Guarda la sorella che già sta facendo rientrare l’uomo sulla carrozzella per sottrarlo al calore del sole. Scoppia in un pianto silenzioso.
EPILOGO
OVVERO COME IN UN MONDO SEMPRE UGUALE A SE STESSO NEL SUO CONTINUO FLUIRE BASTI UN CLIC A MUTARE IL PRORPIO DESTINO (OPPURE AD ILLUDERCI DI POTERLO FARE).
Le foglie sono gialle sugli alberi attorno, ma non sui lauri che sostengono l’amaca. Le cicale saranno già decedute, un’altra stagione è passata: tutto ritorna uguale, tutto ritorna diverso. I passi di Marta nel corridoio, i suoi occhi che ricontrollano la lista della spesa, poi si posano sull’amaca in cerca di Olimpia per il consueto saluto, le solite raccomandazioni. Ma è vuota. Il suo sguardo vaga tra l’erba, verso il casotto, poi la visione più banale, eppure la più sorprendente: il cancello è socchiuso. Qualcuno è uscito. Olimpia.
FINE.
Inizio ultima revisione novembre 2011